Il sesto album in studio dei Take That “Progress”, uscito lo scorso 15 Novembre, ha tutti gli elementi per diventare il caso pop dell’anno. C’è il ritorno di Robbie Williams, ovviamente, su cui tutti i media si sono soffermati; c’è il nuovo sound electropop sorretto dall’uso divertente, ritmico talvolta addirittura eccitante dei sintetizzatori; c’è il successo commerciale di vendite che lo ha consacrato come il secondo album venduto più rapidamente dell’UK. Ascoltarlo non delude le aspettative commerciali e musicali e neppure può far storcere il naso all’orecchio più distratto e meno interessato. “There’s progress now” recita la prima traccia (“The Flood”), e si fa sentire!
L’album si apre con la voce di Robbie Williams sola, accompagnata da una musica leggera ed evocativa che progressivamente esplode ritmicamente fino al ritornello che vede le voci di tutti i componenti ricomporsi e denunciare un comune errore di valutazione: “They said we’d never dance again“. Il diluvio (the flood appunto) c’è stato, ma non ha spazzato via Gary Barlow e soci. Le tracce sono diverse tra loro e affatto ripetitive, permettono di apprezzare i timbri di voce, le differenze, le ritmiche diverse di tutti i componenti. L’uso dei sintetizzatori non è affatto banale e le melodie molto più complesse e composite di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. “Wait” ad esempio presenta diversi linee di ritmo che si alternano e si recuperano. Di frequente le canzoni sono introdotte da blocchi musicali (ritmici, melodici o solo mixati) distinti dal corpo della traccia: incipit, cappelli musicali, finestre aperte sul mondo esterno. Questa è infatti la caratteristica più notevole di questo album electropop: la presenza incisiva del mondo esterno. Tutto il disco sembra girare intorno a speranze e paure personali e collettive, parole non dette (“These words have never left the mouth“), interdetti e divieti (“Communication not allowed“). L’amore compare nella sua assenza pronunciata nell’ultima traccia (“Eight Letters”): “And when I went away/What I forgot to say/Was all I had to say/Eight letters three words one meaning“. Altrimenti il disco avanza preoccupazioni di ben più ampio respiro; umane certo, ma più vaste. “SOS”, ad esempio, forse la canzone più riuscita di tutto l’album sembra prendere molto sul serio quel che di recente sta accadendo, ci sta trasformando fino a farci correre rischi definitivi: “We’ll get a five minute warning for divine intervention“. Un più o meno allusivo rimando al riscaldamento globale, alla crisi ambientale, alle pene del nostro ambiente mandato in rovina da noi stessi: “We are the virus we talk about“.