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Marracash: “King del Rap”. La recensione

Partiamo da un presupposto: Marracash (al secolo Fabio Rizzo) è una delle punte di diamante del rap attuale italiano, insieme ad artisti come Frankie Hi Nrg Mc, Fabri Fibra e Caparezza, parlando solo di quelli che sono riusciti a raggiungere il grande pubblico ed ad ottenere una certa visibilità, tacendo quindi di artisti come Kaos, Nesli, Colle der Fomento e Co’ Sang, giusto per fare qualche nome.

Detto questo, l’ascolto del suo nuovo disco “King del Rap” mi ha lasciato un poco interdetto e purtroppo devo dire spiacevolmente colpito in negativo: dopo un album come “Fino a qui tutto bene“, disco che conteneva pezzi come il singolo omonimo, “Mixare è bello“, “Parole chiave” e “Stupido” che me lo avevano fatto apprezzare sia per la scelta delle basi che per le rime, raramente banali e che parlavano di un mondo così attuale e così messo a nudo nella sua cruda realtà, quando ho ascoltato il nuovo disco la sensazione che ne ricavo è di un passo indietro. Ma andiamo con ordine.

Il disco parte con il singolo omonimo, attualmente in rotazione grazie ad un video molto carino e accattivante pieno di ricordi anni ’90, ed è un pezzo diverso dallo stile “solito” di Marracash, grazie alla base molto blues rock e al suono dell’armonica che rimangono in testa e lo eleggono ad uno pezzi più riusciti del disco. Il disco prosegue con “Didinò“, un pezzo sull’Italia moderna, abbastanza piacevole e che segue in parte il pezzo precedente.

Marracash - King del rap - Artwork

Il terzo pezzo, “Semtex“, vede la collaborazione di Attila ed è un pezzo abbastanza autocelebrativo, senza infamia e senza lode: il disco si riprende un attimo con “In faccia“, un bel pezzo con una base piacevole e che parla di chi lotta e va avanti nonostante tutto (“Se non lo vedi il nemico è già in casa”) e prosegue con “Rapper/criminale” che riprende moltissimo la tradizione della West Coast con una base che ricorda molto da vicino un mostro sacro come 2Pac anche nelle parole.

Dopo questo disco parte una delle parti più riuscite del disco, grazie anche ai featuring: “Giusto un giro” vede la partecipazione di Emis Killa ed è molto piacevole come pezzo grazie anche ad un ritornello accattivante e che resta in testa parlando di flirt da bar e di conoscenze occasionali, “Noi no” vede la testimonianza dei napoletani Co’sang e parla del prezzo del successo (“Non c’è niente di meglio che il successo per dimenticare il prezzo che hai pagato per averlo“) e “S.e.n.i.c.a.r.” chiama a rimare Guè Pequeno e parla semplicemente di donne.

Dopo le collaborazioni, il disco riparte con un pezzo lento come “Sabbie mobili” che parla del passato e del rischio di impantanarsi nel loro ricordo e poi prende una piega tutta sua con “Quando sarò morto…” che riprende la famosa frase di Quincy Jones (“Mi riposerò solo quando sarò morto“) e vede le presenze eccellenti di Fabri Fibra e Jake la Furia.

La canzone successiva, “Nè cura né luogo“, parla con una certa amarezza di come l’anima si perda in tempi come questi e vede la presenza di Salmo per la prima di due canzoni nel disco (l’altra sarà “Marrageddon“). Il disco continua con “Prova a prendermi“, pezzo rappato insieme ad Entics e che non dispiace. La canzone dopo, “…Quando ero vivo“, vede la partecipazione di J Ax ed è forse la canzone più bella di tutto il disco, un ritratto amarissimo di come il mondo della musica macina e distrugge i suoi figli in maniera assolutamente ipocrita pasteggiando anche sul loro cadavere.

Dalle stelle alle stalle: “In down“, il pezzo dopo, passa senza lasciare traccia e non si fa notare per nulla di particolare precedendo “Marrageddon“, un pezzo che dovrebbe essere “cattivo” e che si fa ricordare soprattutto per la base musicale molto particolare.

Il disco chiude con “Fotoromanzo“, pezzo che sfrutta la base di “Fotoromanza” di Gianna Nannini per parlare di una ex e che è davvero piacevole da ascoltare.

Il giudizio finale è luci e ombre: alcune canzoni meritano un giudizio positivo (“King of rap”, “Giusto un giro”, “Fotoromanzo” e la bellissima “…Quando ero vivo”) ma altre sono decisamente da “skippare” e andare oltre. La cosa però che risalta in negativo è un certo appiattimento dei testi su tematiche care al rap americano: donne, alcol, sesso, autocelebrazione, sfida. Dopo un lavoro come “Fino a qui tutto bene” dove molte canzoni erano una denuncia senza filtro nei confronti della società italiana (ascoltare “Mixare è bello” per credere), ci si aspettava decisamente di più.

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