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Jack White: “Blunderbuss”. La recensione

Uscito il 23 Aprile 2012, “Blunderbuss” è già considerato da almeno la metà della stampa musicale come l’album dell’anno. Jack White non ha bisogno di presentazioni: tutti noi abbiamo in mente almeno un paio dei tormentoni prodotti dai White Stripes, la sua band più rappresentativa.

Jack White sta dimostrando però di essere anche molto altro: un musicista in grado di trovare nella sperimentazione molta della sua energia. Qualche tempo fa aveva scelto una modalità molto particolare per il lancio di un singolo del disco, “Freedom at 21”  con tanto di palloncini sparsi in cielo, poi il lancio di “Blunderbuss” in streaming e una dimensione  live che lo ha visto salire sul palco con due band ben distinte, una formata da soli uomini e una formata da sole donne.

Insomma, approcciarsi a Jack White è tutt’altro che facile ma “Blunderbuss” racchiude qualcosa di magnetico. Appena si schiaccia quel tanto fatidico “Play” non lo si abbandona così presto: “Blunderbuss”, non è assolutamente immediato,  ha bisogno di tempo per prendere vita, per rappresentare una costruzione musicale che faccia esclamare “ci troviamo davanti ad un grande disco”. Ha bisogno di cura, di ascolti e di tempo, proprio come le cose belle.

Jack White
Jack White - Copertina di "Blunderbuss"

Jack White: “Blunderbuss”, l’analisi del disco

Ci troviamo davanti a tredici tracce che hanno il potere di suonare nuove pur non essendolo: non che Jack White abbia copiato da qualcuno ma il suono proposto in questo disco non può essere definito innovativo. Jack attinge dal passato, attinge dalla sua cara Nashville, dal rock, dal blues, da un modo di cantare e proporsi che si mischia a diversi altri elementi musicali che quasi sembrano non volerlo abbandonare. Non fatichiamo a comprendere come mai Jack White abbia deciso di costruire la sua Third Man Records proprio a Nashville e, ascoltando “Blunderbuss” lo si capisce fin da subito, lo si capisce nel profondo.

La seconda metà del disco risulta superiore alla prima, magari più percepibile e immediata, perfetta per alcuni singoli  come “Freedom at 21” e “Love Interruption” ma quasi, ci si aspetta che Jack White prenda il volo, prenda una direzione stabile, ci si aspetta che questo disco decolli.

1. “Missing Pieces”: è un piacevole inizio ma qualcosa forse sfugge. Ci rassicura il fatto che siamo solo alla prima canzone e Jack non può certo buttare le carte sul tavolo immediatamente. E’ accattivante e già sentita, però.

2. “Sixteen Saltines”: ci troviamo davanti ad un brano che se non sapessimo provenga da “Blunderbuss” lo piazzeremmo in qualche disco targato White Stripes. Di fatto, non è facile abbandonare una propria creatura musicale per produrre qualcosa di diverso. Questo non era neanche richiesto a White ma, in “Sixteen Saltines” manca un tantino di originalità anche se non possiamo che amare questo riff sempre molto convincente ma, i dubbi continuano a rimanere.

3. “Freedom at 21”: s’inizia ad intravedere parte del significato di questo disco, parte del blues, del rock targato White che in questo brano più che cantare parla, più che parlare, verseggia. C’è un inizio di costruzione,  c’è il classico spiraglio di luce.

4. “Love Interruption”: piazzate ed immaginate questo singolo in pieni anni ’60-’70 e ne troverete l’essenza. La bravura della controparte rappresentata da Ruby Amanfu, cantante di Nashville ma originaria del Ghana, non è di certo in discussione. E’ una ballata che dona un personale colore al disco. “Love Interruption” si classifica come un piccolo gioiello.

5.”Blunderbuss”: anche in questo caso abbiamo a che fare con un testo centrale, un po’ come è stato con la precedente canzone. Jack White ha volontariamente ridotto la canzone ad un brano scarno, privo di orpelli per lasciare un suono molto pulito, un suono che in questa canzone accompagna sempre la voce che ha un ruolo centrale.

6. “Hypocritical Kiss”: è uno dei cosiddetti “tentativi” di White, questa canzone si discosta profondamente dalle altre e vi si può leggere  un profondo omaggio alla musica del passato. Un brano che, pur essendo così diverso dagli altri, convince proprio perchè vedere Jack  nel pieno di una sperimentazione, è ancora meglio che ascoltarlo nel territorio che sappiamo ormai molto bene essere suo (vedasi traccia 2).

7. “Weep themselves to sleep”: è la canzone che sancisce la risalita e l’aumento del voto complessivo del disco stesso. Se le prime tracce erano ancora un punto di domanda, da questo brano in poi White prende una direzione ben precisa. Una canzone che si posiziona fra le migliori del disco, a parere personale.

8. “I’m Shakin”: cover del famosissimo brano di Rudy Toombs,  è puro rhythm and blues con sprazzi di rockabilly. Il brano fu scritto appunto da Toombs e portato al successo da Little Wille John nel 1960. Ancora una volta un grazioso e sentito omaggio di Jack alle sue ispirazioni musicali verso cui, si sente, ha una profonda devozione.

9. “Trash Tongue Talker”: è un’altra traccia in cui la voce di White sembra quasi voler convincere l’ascoltatore. Seduce, affascina e convince dopo qualche ascolto. E’ un altro brano ben poco contemporaneo ma, questo non è sicuramente un difetto.

10. “Hip (Eponymous) Poor Boy”: siamo dinanzi ad uno dei vertici del disco. Posizionato in una strategica scia, dopo i due brani precedenti, l’ascoltatore si aspetta quasi un brano come “Hip (Eponymous) Poor Boy”, ed eccolo. Liberatorio e anacronistico, così risulta Jack White in questa traccia.

11. “I guess I shold go to sleep”: White ormai è immerso in un profondo revival. Nashville esce preponderante in questa traccia che quasi crea una rappresentazione, quasi ci si immagina di essere riportati indietro degli anni, di nuovo. Continui viaggi, in questo disco.

12. “On and on and on”: siamo quasi in chiusura ma, le sorprese non sono finite. La penultima traccia è un abbandono di Jack ad una musicalità che risulta profondamente dolce e serena, quasi sia una ballata sognante. Crea una specie di trance, “On and on and on”.

13. “Take me with you when you go”: Jack chiude “Blunderbuss” con un ammasso (ben congegnato) di suoni. Forse in questo brano ancor più degli altri emerge proprio il fatto che il suono del disco non è targato unicamente White ma vede dietro le quinte una serie di cori ben scelti nonché musicisti in grado di riprodurre un sound molto pieno.

In definitiva, il rock di Jack White non è assolutamente sparito così come non è sparito il blues di Jack White e ancor meno quel rhythm and blues costante per tutto il disco, senza dimenticare la profonda luce targata rock’n’roll: i generi musicali si sono semplicemente fusi per creare un disco che sarebbe stato perfetto per la Nashville anni ’60, ce lo possiamo quasi immaginare Jack White che suona in un tipico locale della zona “Blunderbuss” mentre un Johnny Cash qualunque è lì seduto ad ascoltarlo.

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