La musica è costellata di artisti più o meno importanti, dalle cosiddette meteore, quelle che esplodono improvvise e altrettanto improvvisamente scompaiono, alle leggende che resistono al passare del tempo.
Poi ci sono loro: gli Dèi. Figure intoccabili che, a prescindere da quanto abbiano materialmente prodotto e da quanto abbiano battuto questa Terra, hanno lasciato un segno nella storia. Janis Joplin è una di questi, Janis Joplin siede nell’Olimpo degli Dèi della musica. Oggi, 19 Gennaio 2013, ricorre l’anniversario della sua nascita: avrebbe compiuto 70 anni, se non l’avessero ritrovata riversa a terra quella mattina d’Ottobre del ’70. Ma ancora oggi, a distanza di di oltre 40 anni, continuiamo a piangerla.
La retorica vuole che, nel momento in cui un artista ci lascia, troviamo consolazione in pensieri secondo cui “la musica vince la morte”, “la sua voce e la sua arte vivranno per sempre”. Vero. Eppure non bastano a togliere quel senso di dispiacere per chi di quella musica, di quella voce, di quell’arte avrebbe voluto vedere l’evoluzione, per chi nel 2013 avrebbe voluto poter sentire con le proprie orecchie suoni e sentimenti nuovi.
Non ci è stato concesso questo, non le è stato concesso questo: ci è stato concesso di guardare ad un fermo immagine, ad una donna esile, dall’espressione buona, il sorriso dolce e rassicurante, ad un’artista che sapeva cantare la rabbia e la frustrazione, l’insoddisfazione e la ribellione. Mai un fermo immagine è stato tanto dinamico.
Janis Joplin riesce ancora oggi ad avviluppare chi la ascolti in un vortice di irrequietezza tanto forte da riuscire a donare pace. Quel vortice era lei, l’irrequietezza era lei, la pace era quella che riusciva a trovare quando cantava e suonava. E noi con lei.
Una donna, una donna bianca osava cantare il blues, quel genere musicale che fino a poco tempo prima era stato custodito gelosamente da uomini di colore, figli nipoti e pronipoti di quegli africani che cantavano il dolore della schiavitù e la lontananza da una Patria che non avrebbero rivisto mai. Janis Joplin ha sfidato le regole e le ha infrante.
Ha dimostrato come i ruoli sociali, più o meno consolidatisi nel corso della storia, non debbano essere vittime di autoghettizzazioni, lei tra i primi ha dato voce alla parte più scura ed oscura dell’uomo, strappandole quell’etichetta di negatività che il neopositivismo del boom economico post bellico aveva prodotto.
Oggi, 19 Gennaio 2013, non dobbiamo più combattere con la puntina sul vinile, ci basta premere un tasto ed ecco che l’anima di una donna, essenza della musica, penetra nella nostra per farne un tutt’uno con essa. Non deve sorprendere leggere, poi, che quella melodia sia nata venti o trenta anni prima di noi, alla fine degli anni ’60, perché questo è ciò che gli Dèi fanno, musica senza tempo.
Ho preso una foto di Janis Joplin, l’ho guardata a lungo ed ho provato ad immaginare qualche ruga sotto ai lunghi capelli indomabili come il suo spirito, le mani segnate dal tempo a stringere l’inseparabile sigaretta, la voce incerta per l’età. Ci sono riuscita, l’ho vista nella mia mente. La sua anima no, quella non sono riuscita ad immaginarla corrotta dagli anni.
Ed è così che la voglio ricordare. Una Dea avvolta da abiti sgargianti e cappelli più grandi di lei, coi polsi tintinnanti per i troppi bracciali e il cuore che batte al ritmo di blues.
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