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Gente semplice ma di cuore. Immagini del Mezzogiorno al Cinema

Se il 2008 è stato l’anno della Campania ferale e granguignolesca di Gomorra, se nel 2009 a farla da padrone è stata la Sicilia placcata e turistica di Baarìa, l’impressione, in questo 2010, è che il cinema italiano, quanto alla rappresentazione del Mezzogiorno, stia scendendo, allo sbando, la china perniciosa di un verbo in cui il reimpasto di stereotipi vieti configura un quadro quanto meno discutibile. Sud arretrato, ignorante, triviale. Sud immobile, paralizzato, nel costume e nell’etica. Il Sud come un’Italia altra. Stereotipi (a iosa) che, nella loro impenitente banalità, si concedono spesso derive innocentemente (?) razziste. Non potendo, per limiti di spazio, sviscerare la questione in tutte le sue interessanti implicazioni, mi limiterò ad alcuni riferimenti, a mio avviso altamente indicativi, per esemplicare cosa intendo.

Mine Vaganti
12 marzo. Esce Mine vaganti. Ferzan Ozpetek, regista sensibile di opere (finora) degne di rispetto, dirige, su copione scritto a quattro mani con Ivan Cotroneo, il suo primo film “meridionale”. Gruppo di famiglia in un interno della Lecce contemporanea, una villa altoborghese nella quale ristagnano, fino a esplodere, segreti, ipocrisie, e quanto di meglio l’istituzione familiare sa offrire. Una commedia logorroica e concitata. “Io volevo il Sud con le sue particolarità, la classicità e le tradizioni”, annota il regista nel pressbook. Nulla di male. Il problema sorge nel momento in cui, nel plot, Ozpetek innesta rimembranze e suggestioni autobiografiche. A partire dai personaggi. Zia Luciana, sciroccata (e brava) Elena Sofia Ricci, come dichiarato dal regista (La Stampa, 14 febbraio), sintetizza “le tre zie della mia infanzia”. Infanzia di Ozpetek: Turchia, anni ’60. E infatti, nell’assistere alla recita di zia Luciana che accoglie segretamente l’amante di notte, e urla “Al ladro!” quando questi se ne va, ci si chiede quale bisogno abbia una donna adulta, libera (e benestante) di oggi di ricorrere a simili sotterfugi per fare l’amore. Prosegue, Ozpetek: “Fantastichini è uguale a mio padre”. Ennio Fantastichini interpreta (istrionicamente) il patriarca. Retrivo, machista, sciupafemmine, omofobo. L’agilità con cui Ozpetek ha estratto fatti e persone relativi a un passato vecchio ormai di parecchi decenni, e li abbia trapiantati non certo a Sondrio, ma nella Lecce d’oggigiorno, sottende, a mio parere, una certa percezione del Sud, come realtà impermeabile al mutamento. Cliché! Mi si potrebbe obiettare: un padre omofobo c’era anche in Saturno contro (2007), e veniva dal profondo Nord. Giusto. Ma si consideri, replico io, la differenza di tono con cui Ozpetek affronta le due storie. In Saturno contro, forse la sua opera migliore, la cacciata del figlio omosessuale genera una tragedia, ammantata da una gravitas capace di suscitare commozione e riflessione; in Mine vaganti, cioè al Sud, l’emersione del segreto del figlio maggiore genera una farsa! Il padre infartuato, una corolla di scene sguaiate e il trionfo del grottesco. Ma non il grottesco delle pellicole siciliane di Pietro Germi, nelle quali il Sud assurgeva a superficie riflettente delle piccolezze di un’Italietta intera, e che sarebbe volare troppo alto; quello, piuttosto, di un branco di personaggi che, come fiere nella gabbia in cui Ozpetek e Cotroneo le hanno segragate, gareggiano a chi spara l’idiozia più voluminosa. La più saggia della famiglia? La nonna (Ilaria Occhini), modello di equilibrio e apertura mentale. Dimenticavo… è toscana.
Sul Mare
2 aprile. Esce Sul mare, ultima fatica di un altro meritevole cineasta, Alessandro D’Alatri. Trasposizione patinata del romanzo In bilico sul mare della co-sceneggiatrice Anna Pavignano, il film, al di là delle incerte velleità sociali, è innanzitutto una storia d’amore, ambientata a Ventotene. Non proprio Sud, se si contano i gradi di latitudine, ma presentata con una forte caratterizzazione meridionale. Lui è un ragazzo dell’isola, Salvatore (Dario Castiglio), che non maschera la frustrazione di abitare in un luogo simile (non accanitevi a cercare archetipi rosselliniani: sarebbe fatica sprecata), fa il barcaiolo, è ovviamente povero, vive in una famiglia unita sotto l’egida di una mamma casalinga, naturalmente sovrappeso e cuoca provetta. Lei è una turista settentrionale, Martina (Martina Codecasa), viziata e fragile, figlia di una famiglia borghese e intellettuale come solo al Nord ne esistono (!). Nella luminosità abbagliante di luoghi da cartolina, scocca la scintilla. In una Ventotene in cui nessuno parla un italiano fluente, ma tutti bofonchiano solo svarioni e solecismi,  il  miracoloso amore di Salvatore e Martina è destinato, come nella migliore tradizione, a finire male. E quello che soffrirà di più (per l’instabilità capricciosa della fidanzata) sarà lui. Il Sud, fatto di gente “semplice ma di cuore”, priva della scaltrezza necessaria nella gestione dei rapporti umani perché, in fondo, priva di cultura (?), riceverà lo schiaffo di un Nord più raffinato anche nell’amministrazione degli affetti. Finirà solo e triste, Salvatore. Proprio lui, piacente maschio latino, che alle turiste (ricche, e del Nord!) che gli allungavano una banconota in sovrappiù, era solito offrire, oltre al giro in barca, anche soddisfacenti servizietti extra; come d’altra parte tutti i colleghi barcaioli, votati,  per natura,  nell’immaginario di D’Alatri e Pavignano, a un’allegra e classista forma di prostituzione.
Basilicata coast to coast
E se dopo il successo di Benvenuti al Sud di Luca Miniero, in sala dal 1° ottobre, è già stato annunciato un simmetrico Benvenuti al Nord (se ne avvertiva l’esigenza), mi domando quanto possa rassicurare un tòpos, se anche in un film come Basilicata coast to coast (uscito il 9 aprile), opera prima di Rocco Papaleo scritta con Valter Lupo, convincente road movie in grado di restituirci una Lucania per nulla banale, a un certo punto, per rendere più “vero” il contesto, gli autori si sono sentiti in obbligo di introdurre il personaggio di un fratello possessivo e manesco assillato dall’onore (macchiato) della sorella; il quale, oltre all’inutilità drammaturgica, nulla ci azzecca con le atmosfere psicologiche del film. I tòpoi rassicurano, certo. Ma, se una delle missioni del cinema, come tutti conveniamo, è interpretare e raccontare la realtà che ci circonda, il rifugio nel cliché allontana, in maniera preoccupante, dall’obiettivo…

Dario Gigante

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