Marino Pacileo è un individuo squallido, inquilino di uno squallido appartamento della periferia napoletana e di una squallida esistenza ripartita fra la galera, dove lavora come cassiere, e le bische dove gioca d’azzardo. Faccia perennemente smunta, capelli oleati, andatura costipata e robotica. La voglia voluminosa, quasi bitorzoluta, che gli è esplosa sulla fronte sta all’origine del soprannome con cui tutti lo chiamano: Gorbaciof. Di quei tutti, nessun amico. Solo i colleghi infidi, o i deliquenti mezza tacca dell’ambiente del gioco. Gorbaciof, ennesimo capitolo del trasformismo di Toni Servillo (che riconferma con lode, in questo caso, le note qualità attoriali) è un uomo che si trascina grigio e accidioso nella sua solitudine. Finché, imprevisto, non giunge l’amore. La figlia di un ristoratore cinese (il volto innocente di Mi Yang), una ragazza dolce e remissiva incapace di articolare una parola d’italiano, entra nella sua vita e nel suo cuore ermetico con il carico di una situazione difficile, disperata, dopo essere stata risucchiata, da vittima ignara, nella trappola dei garbugli e dei guai paterni. Nel retrobottega del cinese, intorno al tavolo a cui si gioca alle carte, si aggirano ceffi poco rassicuranti. Nella ragazza, Gorbaciof troverà qualcuno di cui prendersi cura, qualcuno che risveglia in lui una vocazione umana e filantropica atrofizzata, qualcuno da amare (e proteggere) disinteressatamente. Come in un rovesciamento “etnico” di quanto accadeva nell’incantevole Broken blossoms di David Wark Griffith, dove la giovane in pericolo era un’occidentale (la mitica Lillian Gish) e l’innamorato che s’incarica di difenderla un orientale, Gorbaciof e la languida cinese si avventureranno nelle strade di un amore puro, fatto di sguardi e smorfiette, di carezze delicate e reticente erotismo. Per lei, per salvarla, Gorbaciof si metterà in vicolo cieco.
Sulla scorta di una sceneggiatura calibrata ed essenziale, che sottrae laddove potrebbe aggiungere (scarsi e poco facondi i dialoghi, semplice e lineare il plot), scritta dal regista con Diego De Silva (che il ghigno feroce di Napoli lo narrò già con forza nel copione, da lui co-firmato, dello struggente Certi bambini, dei fratelli Frazzi), e forte di una fotografia (Pasquale Mari) che oscilla tra il plumbeo e l’espressionismo cromatico, Stefano Incerti, quindic’anni di servizio dietro la macchina da presa, confeziona un film sorrentiniano nelle atmosfere e nel tema. La vicenda di Marino Pacileo testimonia le conseguenze dell’amore scrutandole nella piccolezza di un gesto come nel fascio di luce che s’insinua dentro un animo torvo. Ma l’amore non basta. Non basta a risanare un mondo corrotto e spietato. Quanto avviene dentro Gorbaciof non trova un rispecchiamento fuori di lui, pregiudicando il lieto fine sospirato. Un fatalismo greve, una predestinazione infausta, la stessa, ineluttabile forza che sovrintende al gangster movie di razza, al noir blasonato e, ancora una volta, al Sorrentino migliore, vanificherà il tentativo di redenzione di Gorbaciof.
Presentata Fuori Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Gorbaciof, un breve lungometraggio, vero e proprio concentrato di intensità psicologica e cinematografica, si affaccia alle sale come uno dei prodotti italiani più interessanti dell’anno, in grado di dare picche anche ai “compagni” passati in Concorso. Il che potrebbe dirla lunga, a volerla dire…
Dario Gigante
[jwplayer mediaid=”37468″]