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L’illusionista: la recensione

Una sceneggiatura inedita di Jacques Tati. Un regista distintosi già nel campo dell’animazione (Appuntamento a Belleville). Sylvain Chomet riprende la matita in mano per dare forma cinematografica a un copione del grande comico rimasto nel cassetto. E ne nasce L’illusionista. Parabola agrodolce sul tramonto di un’epoca e sul declino di un soccombente votato a nient’altro che alla sconfitta, il film, adagiato su di una trama esile e gentile, narra le vicende di Tatischeff (cognome anagrafico di Tati), un prestigiatore povero in canna e abbarbicato a un genere di spettacolo, in quel 1959 in cui la storia prende avvio, passato di moda. Mentre le rock band accelerano i palpiti delle adolescenti, dell’ingenuità della magia dell’anziano Tatischeff, di trucchi che anche i bambini, in platea, intuiscono, il pubblico sembra non sapere che farsene. Costretto dagli insuccessi ad espatriare dalla Francia, l’illusionista conosce, in un paesino britannico, la giovane sguattera Alice, che lo seguirà, di propria iniziativa, incantata dai giochetti di prestigio con lui l’ha accostata, fino a Edimburgo, dove, come la più anomala delle coppie, divideranno un tugurio e una quotidianità scandita dai problemi pecuniari e dalla poesia di un’amicizia tenera e illibata. Ciò che Tatischeff non può, però,  prevedere è che quella creatura innocente e smarrita diverrà una donna, con le sue aspirazioni e inquietudini. Ancora una volta la solitudine busserà alla porta del vecchio.

L’illusionista

Tatischeff incarna, coerentemente, la vetustà che caratterizzò lo stesso Tati, e la sua comicità slapstick in un’era cinematografica in cui la comica tradizionale era ormai sorpassata. E se l’ingenuità di Monsieur Hulot pesava già nel contesto degli anni Cinquanta, l’operazione di recupero di Chomet denuncia tutti i limiti di un’accorata e sincera impresa archeologica, incapace però di emanciparsi dalle pecche del modello. Non parliamo, poi, di quale svantaggio arrechi, a L’illusionista, l’affinità con le chaplinine Luci della ribalta. Tatischeff s’iscrive a pieno diritto nel novero dei vari Calvero, artisti ormai fuori dal tempo, ma proprio nel disegnare i contorni della relazione fra il mago e Alice, la sceneggiatura, nel confronto, ha la peggio. Se, infatti, tra Calvero e la sua giovane protetta fluisce un pàthos che mescola sensualità e pudore, riconoscenza e passione, amicizia e struggimento, la bidimensionalità psicologica imposta da Tati ai suoi personaggi (e, aggiungiamo, il mutismo, da cui Chomet non si affranca), rende il legame fra il prestigiatore e la ragazzina qualcosa che ci scorre davanti senza commuoverci. Né, purtroppo, coinvolgerci. Così come il percorso di trasformazione che conduce Alice a diventare, da stracciona dei sobborghi, un cigno che attira le attenzioni (e l’amore) di un ragazzo, si riduce allo struscio davanti alle vetrine dei negozi d’abbigliamento o delle gioiellerie, senza che mai ci si affacci davvero all’anima del personaggio. E non basta la precipitazione drammatica nel finale, costellato di elementi ricattatori e, fondamentalemente, disonesti, come l’abbandono da parte di Tatischeff del fedele coniglio (meno toccante, in ogni caso, dell’abbandono del gatto in Colazione da Tiffany), per dare sostanza a un’opera così diafana. In cui l’invadenza del commento musicale, quasi andasse a compensare le mancanze dello script, supera, oltretutto, qualsiasi soglia di sopportazione. E mentre appare del tutto gratuita la citazione di Mon oncle, il capolavoro di Tati (è la pellicola proiettata nel cinema in cui entra Tatischeff), l’impressione con cui si vorrebbe uscire dalla sala è quella di un lirismo crepuscolare e minimalista. Invece, ciò che si avverte è solo un senso di deprimente incompletezza.

Dario Gigante

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IL NOSTRO PARERE IN BREVE

Buon Film - Quello che il film lascia alla fine è solo un senso di deprimente incompletezza.

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