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Last night: la recensione

La locandina di “Last night”

Il film che ha inaugurato l’ultima edizione del Festival di Roma, l’interessante Last night, rappresenta anche l’esordio registico della sceneggiatrice, iraniana d’origine, statunitense di adozione (civile e artistica), Massy Tajedin. Quintessenza di quell’intellettualismo radical chic di produzioni smaniose, innanzitutto, di affrancarsi da qualsiasi tratto possa associarle alla mainstream, ma incapaci di rinunciare a civetterie da red carpet (le star!), Last night frammischia pregi e difetti nell’ampolla di una confezione formale ineceppibile e molto suadente per l’occhio. Non necessariamente per la testa, o per il cuore. Una coppia. Lui e lei. Giovani, carini, borghesi. A New York. Johanna (Keira Knightley) è una giornalista free lance che coltiva, in un orticello rinsecchito di insicurezze e tentennamenti, velleità da romanziera. Mike (Sam Worthington), suo marito, acquista e ristruttura interni. Non hanno figli e frequentano festicciole mondane. La collega di Mike, Laura (Eva Mendes), non piace a Johanna, ne risveglia la gelosia. E si tratta della stessa collega con cui Mike dovrà condividere una trasferta professionale di due giorni a Philadelphia. Le preoccupazioni di Johanna si riveleranno motivate. E la notte che marito e moglie trascorreranno separati riserverà tentazioni e seduzioni. Ma non su di un unico fronte. Se, lontani dalla Grande Mela, Mike e Laura si abbandoneranno a una lunga veglia di corteggiamenti e sottointesi, confessioni intime ed erotismo flautato, a Johanna capiterà di incontrare lo scrittore francese Alex (Guillaume Canet), con il quale, in passato, ha intrattenuto qualcosa di simile a una relazione, mai evaporata dai ricordi di entrambi. E la prospettiva dell’adulterio, lungo i sentieri della notte percorsa con Alex, si materializza anche per la giovane e sconsolata signora.

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Una danza sensuale di psicologie e patemi interiori, come questo viaggio nell’animo umano in cui Tajedin ci accompagna, si incaglia, immediatamente, in un primo, innegabile, limite: il cast artistico. Un film in cui scarna è l’azione e fluviali i dialoghi, necessitava indubbiamente di interpreti più consumati e coinvolgenti. Il comparto femminile, in particolare, delude. Knightley si limita a disseppellire il repertorio di smorfiette che pensavamo archiviate con Orgoglio e pregiudizio, ma a salvarla è una presenza scenica che molto deve al fascino ascetico da figura femminile alla Modigliani, in grado di suggerire un sentimento di privazione e di alienazione che si confa al personaggio. Molto peggio va con Mendes, che sembra addirittura annoiata da quanto sta interpretando. I maschietti se la cavano, ma senza allori. Worthington gioca le carte dell’erotismo greve da stallone australiano, e riesce a spacciare la sua tendenziale inespressività per la titubanza di Mike. Canet, dall’enfer di pulsioni in cui precipita Alex, se ne esce con un sorriso e qualche piacioneria, regalandoci, per lo meno, a differenza degli altri, un po’di dolcezza. Tajedin deve metterci parecchio del suo, per salvare il complesso dell’opera. E l’impressione che si ricava da Last night è di una pellicola desueta, già vista, non priva di un retrogusto di vacuità (quello che caratterizza operazioni cerebrali e manierate di questo tipo), ma, al contempo, rovescio luccicante della medaglia, colta, raffinata e cinefila, impregnata della più nobile celluloide. La regista che, da sola, firma anche la sceneggiatura, non si censura di certo in termini di citazioni e rimembranze, più o meno velate. Dalle pagine di Schnitzler, e conseguenti kubrickiane trasposizioni, sembrano usciti Mike e Johanna quando, in apertura, si preparano a recarsi a un ricevimento, dove lei maturerà il sospetto sulla fedeltà del marito; e, in fondo, un doppio sogno, fatto a occhi ora aperti, ora chiusi, è quello che il montaggio alternato e ammiccantemente ellittico, in stile Nouvelle Vague, della alleniana Susan E. Morse, mette in scena nella notte incriminata. La notte come contenitore cronologico dell’emersione singhiozzante di spleen e turbamenti incomunicabili non può non riportarci a quel capolavoro antononiano che, alla notte, è intitolato. Mentre ai Racconti morali di Rohmer, e alla valente derivazione contemporanea del Maestro, la Sofia Coppola di Lost in translation, rimanda una narrazione reticente e sospesa, incentrata sui preliminari di un atto carnale che (non) si andrà a consumare. Sospensione, appunto. La cifra dominante di un copione cesellato ad arte. Reticenza, figura retorica e registica che ricorre più di ogni altra. Il bello di Last night è, gratta gratta, proprio questo. I numerosi primi piani in cui Tajedin articola la direzione non riescono ad attribuire uno spessore tangibile a personaggi che rimangono indefiniti e, tutto sommato, antipatici. Ma ciò che non svelano rimane la loro forza. E quella del film. Peccato, allora, che la regista si tradisca nell’esibire, ricorrendo al solo trucchetto dell’immagine riflessa nello specchio, l’evidenza empirica dell’adulterio. Ma quale? Quello di Mike con Laura, o quello di Johanna con Alex? Il recensore, qui, non può che tacere. Dopo una sfilata di interni sontuosi, abiti griffati e bella gente, il tutto splendidamente valorizzato da una sobria fotografia invernale e commentato da beethoveniani pianoforti, siamo arrivati al finale. Di nuovo marito e moglie, la mattina dopo. E non c’è qualcosa che devono fare prima di tutto… Ma una matassa di non detti che li accomuna in un colpevole dolore, come nello splendido epilogo dell’Amore il pomeriggio. E, qui come lì, il succo e il sugo saranno confinati all’off screen della fantasia (eccitata?) dello spettatore.

Dario Gigante

IL NOSTRO PARERE IN BREVE

Buon Film - Una danza sensuale di psicologie e patemi interiori, un questo viaggio nell’animo umano in cui Tajedin ci accompagna ma che trova nel cast il suo vero limite.

PANORAMICA RECENSIONE

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