“We want sex equality”. Suona forte e chiaro, lo slogan. In quello striscione si condensa il significato di una battaglia che non si riduce a una semplice, per quanto nobile, vertenza sindacale, ma rappresenta lo snodo di una rivoluzione culturale a tutti gli effetti. 1968. Nello stabilimento Ford di Dagenham, sulle sponde del Tamigi, lavora una falange di cinquantacinquemila uomini, e “solo” centottantasette donne, addette al comparto tessile (la cucitura dei sedili). Costrette a sgobbare in condizioni indignitose dentro un edificio pericolante e afoso, vengono sottoposte a un’ulteriore umiliazione nel momento in cui una riclassificazione contrattuale iniqua le condanna al grado di operaie non specializzate. La goccia che fa traboccare il vaso. Organizzatesi in un compatto movimento di protesta, le operaie, guidate da Rita (Sally Hawkins) e incoraggiate dal sindacalista Albert (Bob Hoskins), condurranno, con uno sciopero a oltranza, la fabbrica alla paralisi. Dietro, però, alla lotta per la riqualificazione contrattuale, inizia a delinearsi, pronta a emergere in tutta la sua dirompente portata, la più radicale pretesa dell’eguaglianza salariale con i maschi, e della cessazione di quelle discriminazioni di genere tollerate impunemente fino ad allora. La chiassosa e colorata protesta metterà a nudo l’arroganza del potere come l’ipocrisia dei sindacati di sinistra, e giungerà fino alle stanze del Ministro del Lavoro laburista Barbara Castle (Miranda Richardson), che non potrà ignorare il messaggio giusto e appassionato delle lavoratrici.
Il regista britannico Nigel Cole, autore di titoli amati dal pubblico come L’erba di Grace o Calendar girls, compie, con We want sex (Made in Dagenham, all’anagrafe), proiettato all’ultimo Festival di Roma, un salto di qualità rispetto alle prove piacevoli ma incerte del passato. E, nella libera e fantasiosa rielaborazione di eventi che davvero infiammarono il ’68 inglese, consegna un compito senza errori ortografici di rilievo e che, nonostante qualche sbavatura, gli garantirà una dignitosa promozione. Affidando la scena, senza mai mollare il volante, a un team d’attori ma soprattutto d’attrici che è letizia per gli occhi (alla valente Hawkins e alla magnifica Richardson si aggiunga Geraldine James, la dolente ma infrangibile Connie), Cole si distingue per una regia dinoccolata che mai dimentica il gusto per la narrazione. Con tutte le conseguenze che ciò può comportare. Le esigenze narrative, la necessità di assegnare a una materia sensibile la foggia di uno spettacolo godibile, gravano purtroppo sulla sceneggiatura, firmata da William Ivory. E se il timbro dominante traduce, meritoriamente, un’atmosfera in cui ribollono fermenti sociali, passione umana e civile e sentimento verace, e lo fa con il lume del buon senso, qualche caduta retorica non riesce comunque a risparmiarcela. Sia la morte, effetto lacrima, del personaggio a cui lo spettatore si è affezionato (non sveliamo chi), sia l’improbabile amicizia che si instaura fra Rita e la moglie insoddisfatta del padrone (Rosamund Pike), con tanto di abito prestato dalla borghese alla proletaria (trovata a dir poco offensiva nei confronti delle operaie e delle donne). Sarà forse per riequilibrare gli scompensi indotti da uno strascico di inverosimiglianze che, insieme ai titoli di coda, scorrono le testimonianze, in differita dalla Storia, delle vere operaie di Dagenham ormai anziane; e proprio nell’orgoglio con cui rievocano i fatti, risiede forse la testimonianza più efficace del valore dell’opera di Cole.
Dario Gigante
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