Troppi (meritati) consensi raccolse “Pranzo di Ferragosto” per distogliere Gianni Di Gregorio dal proseguire sul tracciato di un’opera prima così armoniosa e intelligente. E se proseguire avesse significato riaffermare o potenziare l’estro evidenziato, ci troveremmo ora ad accogliere a braccia aperte “Gianni e le donne“, sbucciandoci le mani per gli applausi. Mentre, invece, con un sorriso a mezza bocca, ci ritroviamo a salutare soltanto il derivato minore di un esordio che lasciava presagire di meglio. In programma, nell’offerta del fuori concorso, alla Berlinale in atto, “Gianni e le donne” è, ancora una volta, la storia di un uomo attempato (naturalmente Di Gregorio), che, tra l’afa e i miasmi della calura estiva, a Roma, è costretto a destreggiarsi tra le bizze di donne capricciose, prima fra tutte la madre (il fenomeno Valeria De Franciscis Bendoni, direttamente da “Pranzo di Ferragosto”), le piazzate di un amico petulante, la solitudine e la sconfitta esistenziale di chi, per l’intera vita, ha fatto da ombra agli altri. Legato senza passione e in regime di camere separate a una moglie gretta e scostante, ammorbato dalle lagnanze sentimentali di una figlia ipertrofica e dalla presenza insistente del fidanzato di lei (il personaggio più simpatico del film), Gianni coltiva il desiderio, puntualmente frustrato, di un’avventura galante, sognando che possa consumarsi con una delle molte donne che gli sfilano davanti: la bizzarra vicina di casa, la badante della madre (che, però, in sogno, lo identifica con il nonno scomparso), un’amica dei tempi andati fresca di separazione, una vecchia fiamma. Improvvida goffagine o malasorte, le sue rimarranno soltanto fantasie.
Non si può negare che il vascello della narrazione salpi con il giusto mordente: la sequenza d’apertura, in cui Gianni s’illude di estorcere alla madre la firma su di un atto notarile, ma viene smascherato, nello studio del notaio, dalla ancor lucida e arzilla signora, convince. Non si può nemmeno nascondere che alcune delle stazioni in cui ormeggia riescano a divertire. Ma si giunge a un punto in cui l’impressione che tutto si sia perso in alto mare non può essere zittita. Gli sketch e le battute non sono, alla lunga, così esilaranti da mascherare l’assenza di una spina dorsale drammartugica a porsi come elemento di sintesi (il Moretti prima maniera era altra cosa), e si finisce con l’assistere all’indolente sequela di situazioni ripetitive e prevedibili. Non senza qualche incursione nel cattivo gusto (l’episodio del viagra poteva esserci risparmiato). Se “Pranzo di Ferragosto” si caratterizzava proprio per un’orchestrazione calibrata e impeccabile di personaggi , tempi, ritmo e gag, e riusciva a elevare la cronaca di un Ferragostro da incubo al soglio di una riflessione sulla senilità e sull’abbandono nella società contemporanea, la sceneggiatura di “Gianni e le donne”, nella cui stesura il regista si è lasciato affiancare dal giovane Valerio Attanasio, non procede oltre l’ombelicale contemplazione di fantasmi che Di Gregorio, come lui stesso ha pubblicamente dichiarato, si porta dietro. E un epilogo che si vorrebbe poetico e visionario (felliniano?) si rivela solo la brusca interruzione di un film che, sulla stessa linea, avrebbe faticato a proseguire.
Dario Gigante
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