“E dopo?”. “Non lo so. Qualcosa faremo”. Rebecca, Howie. Dopo il barbecue con gli amici e i parenti, per dimostrare che nulla di irreparabile si è abbattuto sulle loro vite, dopo che tutti se ne saranno andati e loro si ritroveranno ancora una volta soli, con i fantasmi di una casa coniugata al passato perduto, con il loro insopprimibile struggimento, qualcosa andrà fatto, per non soccombere. Rebecca e Howie hanno perso un figlio. Un bambino di quattro anni strappato al loro affetto da un incidente assurdo, da una casualità rapace. E ora, coppia benestante della East Coast, si barcamenano fra il gruppo di sostegno a genitori nella loro condizione, l’equilibrio sdrucciolevole tra memoria e rimozione, l’amicizia a metà fra catarsi e flagellazione, da parte di Rebecca, con l’adolescente che ha provocato la morte del bimbo, il tentativo infelice e fallito, da parte di Howie, di evadere dal logorio coniugale accanto a un’altra madre spezzata.
“Terzogenito” di John Cameron Mitchell (“Hedwig”, “Shortbus”), superbamente sceneggiato da un David Lindsay-Abaire che, con invidiabile sicurezza, gioca in casa (il film è tratto da un suo dramma teatrale), “Rabbit hole”, in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Roma, s’insinua senza divagazioni nel cuore del soggetto, restituendoci il battito di un’impossibile eppur doverosa introiezione del lutto. E collocandosi nella migliore tradizione di quel particolare filone di film sulla perdita che narrano la scomparsa di un figlio. Rinunciando a qualsiasi compromesso con la commedia o a pennellate distensive (ogni sorriso è il manifesto di una disperazione strisciante), regista e sceneggiatore sembrano volgersi, più che al Moretti della “Stanza del figlio” o al melò almodovariano, al Bergman di “Passione” o “Sinfonia d’autunno”, intrecciando la fenomenologia del lutto materno e paterno alla riflessione sul cinismo di un mondo in cui (l’assenza di) Dio consente ingiustizie mostruose. Lo stesso Dio che, qualora esistesse, non potrebbe essere, secondo Rebecca, che “un sadico bastardo”. Attraverso una regia, anch’essa bergmaniana, costruita su primi piani che esplorano volti straziati, Mitchell ci conduce lungo il viatico dissestato (eppur così lineare, in una narrazione che fluisce senza sbandate) di una coppia alla ricerca di un significato da assegnare a ciò che resta della loro esistenza. A colloquio con Aaron Eckhart, nella parte di Howie, il regista pone, nel ruolo di Rebecca, una Nicole Kidman che ritorna a un personaggio affine a quello del thriller che le regalò il successo internazionale, “Ore 10: calma piatta”, ma con un bagaglio esperenziale che le permette di dotare Rebecca (figura nella quale ha creduto fino al punto di produrre il film) di un’umanità sconvolgente, in un’ideale continuità artistica ed emotiva con lasempre brava Dianne Wiest, madre e nonna ferita, o con la Liv Ullman più leggendaria. La candidatura all’Oscar è un atto dovuto. Mentre per spiegare il significato del titolo, è molto meglio rimandare alla visione di una pellicola alla quale non si può che augurare ogni bene.
Dario Gigante
Voto:
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