Ree è poco più che una ragazzina, ma cresciuta anzitempo, in una terra in cui s’impara a sparare bambini e la lotta per la sopravvivenza è rapace. Nelle aspre montagne del Mid-West, vivono uomini e donne i cui volti, dissestati dal sacrificio e dall’abiezione, ricordano quelli dei mangiatori di patate vangoghiani. I cuori irrigiditi dal freddo, le menti diluite nell’alcool o affossate dalla droga. Una madre alienata e un padre che produce, e spaccia, anfetamine. Due fratelli ancora piccoli e una capanna al centro di una modesta proprietà boschiva. Quando il padre, dopo aver ipotecato casa e alberi per pagarsi la cauzione, scompare, Ree, davanti al rischio di uno sfratto rovinoso, si mette sulle sue tracce. Urtando contro l’omertà e la violenza dei componenti del suo stesso clan familiare, tutti dediti, a diverso titolo, all’attività criminale, Ree si troverà inviluppata in un microcosmo raccapricciante, sostenuto da leggi arcaiche e triviali, dove il denaro vale più della vita.
Le motivazioni che hanno persuaso i giurati del Torino Film Festival, come quelli del Sundance, ad assegnare a “Un gelido inverno” (“Winter’s bone“) le massime onorificenze, che hanno spinto l’Academy a concedergli quattro nomination agli Oscar e la critica a tributare riconoscimenti benevoli, non tardano a balzare all’occhio, in questa pellicola indipendente che scorre al ritmo di una suspense ansiogena e si conficca, nel ventre dello spettatore, come una lama ghiacciata. Secondo lungometraggio di Debra Granik (il primo è inedito in Italia), tratto dal romanzo di Daniel Woodrell e sceneggiato dalla regista insieme alla produttrice Anne Rosellini, “Un gelido inverno” adotta con disinvoltura i canoni del thriller (il mistero da sciogliere, l’indagine), per spingersi molto più in là dell’intrattenimento poliziesco. Attraverso un’inflessibile disciplina dell’immagine, che rifugge consapevolmente scene madri e sequenze action di facile presa, e la sapiente creazione di atmosfere raggelanti non solo per le temperature a cui i personaggi sono sottoposti, ma soprattutto per lo sperone di verità che rimane, puntualmente, interrato e inattingibile, in un film in cui anche il sangue scorre in rigagnoli avari, Granik scatta una radiografia impietosa del male annidato nelle pieghe ascose della società americana, in un Paese nel Paese dove valgono codici comportamentali alieni agli assetti civili dello Stato. La terra dell’abbondanza cela la privazione nel suo seno, e la privazione genera abominio. Con un taglio che ricorda, a tratti, Haneke e un’apparente informalità visiva (macchina a mano, luce naturale) sulla scia del Dogma, “Winter’s bone” trattiene, sotto sequestro, soluzioni delucidatorie e catarsi definitive, per consegnare l’idea angosciosa di un mistero a cui non si verrà mai del tutto a capo, in quanto incarnato nelle logiche tribali del silenzio. La componente femminile gioca un ruolo cruciale, e Granik le concede tutta l’attenzione dovuta: sia la donna colei che custodisce la vita (l’iconografia animale insiste sul motivo del cucciolo: i gattini nel prologo, i pulcini nell’epilogo), siano le donne il braccio armato (e truculento) del maschio dominante. Sia la giovane e coraggiosa Ree, siano le parenti balorde. Jennifer Lawrence conferma, nei panni sdruciti e nelle imbottiture di Ree, il talento per ruoli d’impatto già evidenziato in “The burning plain“, accanto un John Hawkes, zio tossicomane e ruvido ma con l’anima, di straordinaria umanità.
Dario Gigante
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