Guardiamoci virtualmente negli occhi e diciamoci la verità: se un regista per tutta la sua carriera ha sfornato lavori degni di memoria, non significa che la sua attività debba essere necessariamente perenne e costante, qualche flop può regalarlo anche lui. E se Pedro Almodòvar fino ad oggi è stato considerato uno dei colossi del cinema europeo, non necessariamente “La pelle che abito” deve suscitare timore in chi lo guarda, facendo nascere un leggero senso di colpa se solo si pensa “ma che brutto film”. Raggiunta la maggiore età artistica, Pedro Almòdovar sembra aver perso di vista qualcosa e ci regala un’opera confusa e quantomai di bassa qualità, deludente da farci quasi pensare che la situazione sia irrecuperabile, perché per uscire dal fango di “La pelle che abito” ci vuole un bel capolavoro, degno del vecchio Almodòvar, quello di “Tutto su mia madre” e “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”” che già con “Gli abbracci spezzati” iniziava a vacillare un po’. Ci troviamo di fronte ad una storia davvero molto interessante, che prende forma dal “Tarantula” di Thierry Jonquet, ma che tocca tematiche più e più volte affrontate sia nel mondo della letteratura che in quello del cinema, si pensi a Frankenstein o ai film di Hitchcock. Il protagonista è il chirurgo Robert Ledgard (uno sbiadito Antonio Banderas) che deve superare la perdita della moglie, morta carbonizzata in un incidente d’auto, e quella della figlia, che si suicida dopo aver subito uno stupro. La già precaria stabilità psichica del dottore si inclina del tutto quando rapisce Vincente (Jan Cornet) e lo usa come una vera e propria cavia umana per i suoi esperimenti. La storia è ben più complicata di così, ma non bisogna dire molto, perché la contorta trama si sviluppa a poco a poco e non permette allo spettatore di capire tutto e subito, crea una suspance che però perde di efficacia, impotente di fronte ad una sceneggiatura debole e a tratti poco credibile. “La pelle che abito” affronta la tematica della sessualità, filone narrativo di tutti i film di Pedro Almòdovar; l’incrocio tra uomo e donna, quella sessualità indecisa che sul grande schermo ha portato svariati personaggi transessuali che gli amanti del regista spagnolo hanno imparato ad apprezzare ormai da tempo e che in questo caso si incrocia con la medicina, quella priva di sentimento che non bada a nulla pur di portare risultati che siano stupefacenti. Il nostro Robert crea un miscuglio genetico, un derma umano misto a quello di suino, un’opera tanto rivoluzionaria nel campo della scienza, quanto spaventosa. E la bioetica è da sempre un argomento delicato, che in questo caso getta solo le basi narrative per portarci dentro la psiche di un uomo deviato, sessualmente frustrato ed incapace di controllarsi. Attorno a lui personaggi che a livello psicologico non sembrano stare meglio, quasi come se il regista volesse dirci che a questo mondo nessuno è salvo, siamo tutti pazzi (e magari la nostra casa è costellata di pistole). “La pelle che abito” racconta una storia d’amore quantomai contorta e complessa, ma nella maniera più scadente possibile. Dov’è finito Almodòvar? Viene da chiederselo sin dai primi fotogrammi (non parliamo poi dei titoli di coda, così anni ’90), mentre si dirama una storia che ha dell’incredibile, ma questo non stupisce, se è di Almodòvar che stiamo parlando. Il regista riporta dopo lungo tempo Banderas sul grande schermo, affiancato dall’immancabile Marisa Peredes e Elena Anaya, sua nuova prediletta, nei panni di Vera. Elementi tipici dei suoi film sono sempre stati abbandoni e ritorni sconvolgenti, transessuali, morti improvvise, incidenti stradali, ma il problema è quando viene a mancare la credibilità, anche in minima parte. “La pelle che abito” sembra essere il peggiore degli horror di serie B che si trascina a colpi di flashback e quasi viene da sperare che il regista abbia voluto ricreare appositamente il suo film in questo modo oppure che, come i suoi personaggi, abbia perso il senno, almeno un po’. Voto: [starreview tpl=16]