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Johnny English – La rinascita: la recensione

Torna al cinema con un secondo capitolo il personaggio creato da Rowan Atkinson, “Johnny English”, per ora solo l’ultimo esempio della fortuna che hanno avuto le tante parodie della saga di James Bond succedutesi fin dal primo, lontano, film della serie del personaggio creato da Ian Fleming. 007, si sa, deve il suo successo alle grandi doti che gli sono state affidate: praticamente indistruttibile, ironico, a volte surreale, grande amatore e inarrestabile avventuriero. Il passo verso la parodia è stato veloce: dai film primi film italiani, assurdi e spesso deliranti, al famoso “007 – Casino Royale” (1967) di John Huston con David Niven nei panni dell’agente segreto e con un giovanissimo Woody Allen, e poi ancora da “Spia e lascia spiare” (1996) con Leslie Nielsen alla più recente “contro serie” di Austin Powers (1997-2002), l’agente al servizio di Sua Maestà è stato fatto oggetto di tutte le più vivaci prese in giro.

Johnny English
D’altronde, più gli autori di James Bond hanno accentuato la componente inverosimile  del personaggio, più i comici hanno aumentato le trovate bizzarre e demenziali presenti nei loro film, assumendosi senza timore anche il rischio di copiarsi e ripetersi. È vero dopotutto che entrambe le parti giocano sullo stesso terreno, quello dell’iperbolico e dell’impossibile, che già di per sé è fonte di comicità. Senza scomodare Rabelais e i suoi giganti mangioni, basti pensare ai film con Roger Moore: pur appartenendo alla serie ufficiale di 007, le atmosfere di queste pellicole virano decisamente verso l’avventura esotica da fumetto (“Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro”, tratto dall’ultimo romanzo di Ian Fleming) quando non sconfinano apertamente nella fantascienza (“Agente 007 – Moonraker” del 1979, di cui si ricorda la battaglia nello spazio a colpi di laser in pieno periodo “Guerre Stellari”). E non di rado l’ironia prende il sopravvento sull’azione, consacrando Roger Moore non certo come il miglior interprete ma sicuramente come quello più simpatico. Il suo faccione quadrato ricorda forse non a caso certi eroi americani di carta degli anni Trenta e Quaranta, e fu infatti scelto per ruoli simili nella serie “Attenti a quei due” e nel film “I 4 dell’oca selvaggia”. I numerosi film che replicano le avventure della spia inglese dunque presentano le identiche esagerazioni e si limitano a poche anche se decisive modifiche, all’uomo muscoloso e dongiovannesco si sostituisce quello brutto e imbranato (la comicità mimica e fisica è presente in tutte la parodie), le armi del geniale Q sono camuffate negli oggetti più improbabili, i cattivi rimangono dei freak, ma più umani, poveri diavoli cui a volte va la nostra simpatia (chi non ama il dottor Male, nemesi di Austin Powers?), e le trame aumentano il loro grado di non sense. “Johnny English” non fa eccezione e si accomoda nello stesso solco, ma se il primo episodio puntava molto a divertire i bambini, questo “Johnny English La Rinascita” diventa più maturo e cerca di accogliere anche il pubblico degli adulti. Sostanzialmente la materia è la stessa, si ride guardando Rowan Atkinson fare figure imbarazzanti davanti a persone importanti o prendere decisioni del tutto illogiche per chiunque sia dotato di un minimo di buon senso, la differenza però sta nell’aver voluto ispirarsi più a Peter Sellers e al suo devastante ispettore Clouseau che al semplice Mr. Bean. Le smorfie dell’attore inglese si riducono in favore di gag meglio costruite, e in più di un momento si ride di gusto, a patto però di sapersi lasciare andare per un’ora e mezza. Anche perché, rispetto al già citato Sellers, i pasticci di Johnny English mancano di una struttura vera e propria che li giustifichi e sono talvolta un po’ forzati. Sappiamo che il personaggio è il classico scemo che alla fine se la cava con un po’ di fortuna e di follia, ma qualche equivoco e coincidenza inaspettata in più avrebbero sicuramente impreziosito la pellicola. Il film però non è privo di umorismo tutto britannico, che demolisce senza volgarità il mito della precisione e compostezza inglese, in tempi in cui la comicità demenziale americana sembra essere l’unica disponibile. Nel primo capitolo a fare le spese di questa presa in giro erano i francesi in una contesa tutta europea dove era messo in gioco l’antico trono britannico, nel suo seguito invece lo sguardo arriva fino in Cina. Vi è infatti una scena particolare, un inseguimento per le strade di Hong Kong tra il nostro e un sicario cinese, dove a voler essere fantasiosi si può trovare un curioso sottotesto per il film: il personaggio di Johnny English con la sua mancanza di agilità rappresenta la mollezza dell’odierno Occidente, raffigurato anche nel suo esplicito cognome, mentre il giovane e scattante arrampicatore di muri è il simbolo dell’agilità asiatica. Fortuna che il nostro Inglese se la cava anche stavolta, almeno nei film possiamo ancora regalarci qualche risata. Voto: [starreview tpl=16]

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