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“L’industriale”: la recensione

Un film strettamente attuale, “L’industriale” di Giuliano Montaldo, legato a doppio filo alle difficoltà che viviamo e alla “crisi” che attanaglia lavoratori e dirigenti. Un film cupo e pessimista, già presentato Fuori Concorso al sesto Festival Internazionale del Film di Roma, che unisce alla crisi economica la crisi dei sentimenti. Non c’è speranza, non c’è redenzione, forse non c’è futuro.

L'industriale - locandina

Nicola ha quarant’anni, è proprietario di una fabbrica, ereditata dal padre, sull’orlo del fallimento. Nicola è strangolato dai debiti e dalle banche, nella Torino che vive la grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, tenace. Ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli, esattamente come le finanziarie che lo vorrebbero al tappeto. Laura, sua moglie, è sempre più distante. La sta perdendo, se ne è accorto, ma non fa nulla per colmare la distanza che ormai li separa. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, in attesa di concludere una joint venture con una compagnia tedesca, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Ma invece di aprirsi con Laura comincia a sospettare di lei. E a seguirla di nascosto. Tutto precipita. I tedeschi rifiutano l’accordo e Laura annuncia che ha intenzione di separarsi. Nicola annaspa e tira fuori il peggio di sé. Poi la ruota della vita di Nicola gira. Tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale. Ma Nicola ha più di un segreto da nascondere…

Paura e “assedio”

Giuliano Montaldo prosegue il discorso già affrontato nei suoi precedenti film e dirige un film di denuncia e di “assedio”. Nicola è assediato, dagli operai che non vogliono perdere il posto, dai banchieri che non gli fanno credito, da loschi finanzieri che pretendono anche l’anima pur di aiutarlo, dalla famiglia della moglie e, forse, dalla stessa moglie (una discreta Carolina Crescentini) verso cui nutre profondo amore, cieca gelosia e qualche sospetto. Ma soprattutto Nicola è assediato dalla paura e dalla vergogna, di non farcela a pagare gli stipendi, di doversi arrendere e chiudere la fabbrica, di non essere un buon marito, di essere cambiato e non meritare più l’amore della moglie.

E’ proprio la prima parte quella più riuscita, quella in cui si mostrano alcune meccaniche della finanza, quella in cui la morsa dei debiti si fa più stretta e fa mancare l’aria. Coadiuvato da un direttore della fatografia che desatura tutto (alla lunga stancante ma perfetto per sottolineare le sfumature pscicologiche dei personaggi e la “cappa” opprimente che fa andare il protagonista caparbiamente verso una sola direzione) e dall’interpretazione fantastica di Pierfrancesco Favino, Montaldo descrive la tenacia, la caparbietà e la solitudine di un uomo che non vuole piegarsi ai consigli e ai suggerimenti. “Perchè il dolore e l’umiliazione per una sconfitta, inaccettabile dopo tanti sacrifici, sono eventi troppo forti”, spiega il regista.

Peccato per una seconda parte in cui si innescano le solite tipologie da “corna borghesi” che annacquano la storia e lo fanno cadere preda di qualche clichè di troppo. La crisi dei sentimenti in questo caso è la diretta conseguenza della crisi economica che vive il protagonista. Non può esserci happy end. Nel finale il regista tira le fila con decisione, con un crescendo affilato (anche se un filo prevedibile) fino ad un finale che non è un finale ma una sospensione gelida. Forse l’unico finale possibile.

Quello che a memoria rimane dopo la visione sono alcuni caratteri che illuminano il film di comprensione, unica luce in queste tenebre, come il vecchio operaio amico del padre di Nicola, che gli dice che non è colpa sua per quello che sta accadendo. Nicola stringe i denti, una lacrime scende, distoglie lo sguardo. In quell’attimo l’empatia con lo spettatore è completa e totale, e si può dire che Montaldo ha fatto un film giusto che fa riflettere e discutere.

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