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Recensione cult: Edward mani di forbice

Questo piccolo cult, se non per tutti i cinefili almeno per le ultime due generazioni della categoria, racconta una storia d’amore e solitudine che ci viene introdotta da una nonna intenta a raccontare alla nipotina una favola per farla addormentare. Uno scenario di questo tipo è il simbolo perfetto della poetica del primo Tim Burton: fare cinema con il piacere di raccontare storie, decisamente grottesche, ad un pubblico che mantiene vivo il suo lato fanciullesco nonostante l’età adulta. Uno spettatore, dunque, ancora capace di emozionarsi all’ascolto (o alla visione, in questo caso) di una favola. “Edward scissorhands“, è proprio una favola ma non del tutto infantile: uno dei grandi meriti del regista statunitense (era?) è la capacità di scrivere ed inscenare storie adatte ad un pubblico di tutte le età; il fascino delle opere di Burton rapisce i piccoli come i grandi, dando a questi ultimi anche alcuni spunti di riflessione sociologica e perchè no, anche etica.

In un luogo imprecisato degli Stati Uniti, in un tempo che dall’abbigliamento e dagli elettrodomestici si aggira approssimativamente attorno agli anni ’70 e ’80, c’è un castello oscuro all’interno del quale abita un inventore (il veterano Vincent Price, di cui Burton è un grande estimatore) che produce biscotti. L’anziano signore si sente solo nel suo castello e allora decide, in modo decisamente frankensteiniano, di costruirsi un “figlio” (Johnny Depp) cui dà il nome Edward. L’inventore però muore prima di potergli impiantare le mani e così la giovane creatura si ritrova con delle lame di forbice al posto delle dita. Un giorno, Peggy Boggs, rappresentante locale di cosmetici, entra nel castello sperando di vendere qualcosa al proprietario. Incontra Edward e, dopo esserne rimasta impaurita, lo porta a casa dalla sua famiglia perchè non vuole che stia solo. Il “ragazzo” non era mai uscito dal castello e si ritrova in un mondo coloratissimo e pieno di pericoli per un ingenuo come lui.

Edward e Peggy al loro primo incontro nel castello

Salta subito all’occhio il fortissimo contrasto cromatico tra i colori scuri del castello e degli abiti di Edward e i mille colori pastello della cittadina e del vestiario dei suoi abitanti. Il regista e e lo scenografo Bo Welch allestiscono un castello nella migliore tradizione dell’espressionismo cinematografico tedesco e un mondo plastico, fatto di forme geometriche; un mondo piccolissimo, un universo chiuso che ha qualcosa del mega-studio televisivo di “Truman show“. Il lavoro sulle scenografie è a dir poco favoloso: l’evidente contrasto è curato nei minimi dettagli e perfettamente riuscito. Edward è immerso in un agglomerato di casette che sembrano giocattoli, da plastico, abitate da una comunità perfetta all’esterno e che si rivela da subito piuttosto inquietante. Per altro, la vita all’interno della comunità è raccontata con un’ironia genuina che si è persa nei film successivi di Burton.

La forza sensoriale di “Edward mani di forbice” sta poi nella messa in scena: la regia di impianto classico vanta alcuni movimenti di macchina all’interno degli ambienti (solitamente panoramiche) che ce li fa vivere nella loro interezza, ci permette di entrarvi; regia e scenografia sono commentate dalla colonna sonora ad opera di Danny Elfman: orchestrazioni “magiche” grazie alle quali tutto acquista un valore aggiunto e noi che siamo di fronte allo schermo rimaniamo incantati. Impossibile poi, non innamorarsi di un personaggio come Edward, molto interessante di base e interpretato in modo originale e consapevole da Depp. Un personaggio tutto sentimento, di un’ingenuità disarmante che però deve scontrarsi con le problematiche quotidiane della “vita normale” (il suo problema principale è il rapporto con i soldi, con la banca e le istituzioni per le quali lui non è mai esistito) cui proprio non sa come far fronte.

Edward vede per la prima volta il mondo fuori dal castello

Tra i tanti temi che si potrebbero affrontare in riferimento a questo racconto dell’epoca d’oro della produzione di Tim Burton, il primo che viene in mente è senz’altro quello della solitudine, della condizione di “diverso”, di “strano”. Concetto che si potrebbe guardare anche da un’altra angolazione, quella dell’unicità, dell’essere “speciali”. Edward è un mostro o un individuo unico e dunque meraviglioso? Difficile dirlo, i personaggi del film hanno idee discordanti al riguardo: Peggy lo accoglie con sè come un figlio, gli uomini della cittadina lo prendono in giro e le donne prima lo acclamano e poi finiscono per avere paura di lui. Kim (Winona Rider) ne è persino innamorata. A questo punto, lo spettatore è chiamato a prendere una posizione anche se è difficile pensare che, dopo un’ora e quaranta minuti, quel personaggio così puro non ci abbia catturato il cuore.

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