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Margin Call: la recensione

Tutto ebbe inizio nell’estate del 2007 con la grave crisi finanziaria che investì gli Stati Uniti d’America (riconosciuta come la crisi del subprime) e  generò una serie di eventi a catena, dalla recessione al crack industriale, su scala mondiale coinvolgendo irreparabilmente anche l’Europa. Di livello superiore alla stessa grande depressione del 1929, questa grave situazione economica è ancora tangibilie poiché, noi tutti, ne paghiamo ancora le conseguenze.

Nella pellicola d’esordio J. C. Chandor ci racconta la genesi di questo crollo economico, attraverso le “ultime” 24 ore di una banca d’investimento e dei suoi dipendenti. Una storia che ricorda terribilmente quella della Lehman Brothers, una delle società più attive ed impegnate nell’investment bank, che dichiarò bancarotta nel 2008, avvalendosi del Chapter 11.

Margin Call

Eric, uno dei dipendenti più longevi di una grosso istituto finanziario newyorkese, viene licenziato e costretto ad abbandonare in fretta il suo posto di lavoro. Lascia, però, in eredità al giovane collega Peter un file scottante che, una volta analizzato, rivela impietosamente la gravissima situazione economica della banca, entrata nel suo ultimo giorno di vita. Viene convocata d’urgenza una riunione notturna nella quale si opta per una difficile soluzione, da attuare all’alba della mattina seguente e che inciderà per sempre nella storia della economia mondiale.

Giudizio sul film

Per la sua prima da regista Chandor si fregia di un cast ricchissimo: Jeremy Irons, Paul Bettany, Kevin Spacey, Zachary Quinto, Demi Moore, Stanley Tucci, Simon Baker e Penn Badgley. Ne viene fuori una importante pellicola drammatica,  dal linguaggio tecnico di difficile comprensione per i non addetti ai lavori. “Margin Call” racconta una storia “americana” in 24 ore permettendoci di entrare nelle menti di uomini – apparentemente – senza scrupoli, costretti a prendere una decisione che avrà ripercussioni senza limiti per loro stessi e per l’intera economia del paese. L’obiettivo è vendere, vendere e ancora vendere. Niente scambi, niente acquisti, venendo meno alla politica di compravendita della banca. Liquidare titoli e persone, poiché i margini di rischio sono stati abbondantemente superati, vendere perché quel sistema fittizio che si teneva in vita grazie a fondi virtuali e titoli inesistenti, sta lentamente morendo.

Chandor confeziona una pellicola di valore, un film di denuncia che permette di analizzare un vero e proprio microcosmo composto da manager e analisti a rischio. Eppure non riusciamo a provare pietà per loro, o sofferenza per il loro destino. Basti pensare alle possibili liquidazioni di fine giornata, quando la bancarotta sarà ufficiale: un milione a testa, per il disturbo. E non proviamo rabbia, perché dopotutto la colpa, in primis, è nostra, del popolo che vuole fregiarsi dei beni di lusso nonostante non ne abbia realmente la possibilità.

“Margin Call” è una pellicola nuda, che smaschera e porta sul grande schermo una situazione drammaticamente reale. Quella parola, crisi, che ancora oggi e ostinatamente ci viene riproposta su tv, giornali, radio, quella parola che è spesso – sempre – sinonimo di disoccupazione, di fallimento, di paura, quella parola a cui molti non possono e non riescono a dare una spigazione. Chandor ci prova, sfruttando un linguaggio tecnico ridotto all’osso, semplificato ma non per questo di facile comprensione. Eppure, nonostante si parli di margini di rischio, di trading, di azioni e titoli, di perdite milionarie, tutto – alla fine – appare terribilmente chiaro grazie alle dimostrazioni ciniche dei protagonisti che ci lasciano con un assioma: l’etica, nel linguaggio economico bancario, è classificabile come mera utopia.

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