Mancano solo quattro giorni alla conclusione della sessantanovesima Mostra del Cinema di Venezia. La corsa al Leone d’Oro 2012 ha visto la presentazione di due contendenti come il regista coreano Kim Ki Duk e l’autrice portoghese Valeria Sarmiento.
Kim Ki Duk ha portato a Venezia il suo nuovo film, “Pietà”. Un uomo vive e lavora in un’area povera di Seul, dove raggiunge, senza disdegnare l’uso e l’abuso della violenza, i crediti degli usurai.
L’uomo, cresciuto senza una famiglia, vive una vita di solitudine, vuota e apparentemente priva di pietà nei confronti del prossimo. Un giorno, improvvisamente, si presenta alla sua porta una donna di mezza età che afferma di essere sua madre, donna che molto tempo prima lo aveva abbandonato.
La sconosciuta, prostrata e penitente, sembra far breccia nel cuore arido (e per troppo tempo rimasto chiuso) dell’uomo.
Con il suo diciottesimo film, Kim Ki Duk sembra aver risolto definitivamente quella crisi artistica che sembrava aver attanagliato tutta la sua produzione recente, ripiegata su sé stessa e standardizzato su un livello di mediocrità.
“Pietà” è un film disomogeneo, spigoloso, ma anche estremamente affascinante, in cui Kim Ki Duk ritorna maestro di una gestione narrativa metaforica per raccontare perversioni e orrori del capitalismo contemporaneo, ma anche di una profonda crisi valoriale e morale.
Costruito come un gioco di specchi in cui la prospettiva è costantemente ribaltata, “Pietà” sorprende per il suo lucido disincanto e per una disperazione di fondo (mai banale e fine a sé stessa) che sembra avere ormai assunto i connotati del file rouge tematico di questa sessantanovesima Mostra di Venezia. Applausi scroscianti e meritati. Voto: 7,5
Quando la morte lo ha raggiunto a Parigi lo scorso anno, Raul Ruiz stava lavorando a un film sull’invasione napoleonica in Portogallo nel 1810. dopo pochi mesi, come ultimo atto d’amore, la compagna del regista, la montatrice Valeria Sarmiento, decise di completare il progetto, ora un kolossal da due ore e mezzo dal titolo “Linhas de Wellington”.
La vicenda si concentra sulla ritirata dell’esercito portoghese verso le linee di fortificazione di Torre Vedras, con lo scopo di indebolire e lasciare i francesi senza rifornimenti locali. Quest’azione strategica però cambierà per sempre le sorti dei civili che, affamati e senza più casa, non potranno far altro che sperare in una vittoria delle loro truppe.
La Sarmiento mescola un magniloquente affresco storico e privato, focalizzandosi sugli effetti devastanti scatenati dalla guerra nella vita dei soldati, delle famiglie e delle vittime, sacrificando molto la componente spettacolare con particolare riferimento alle scene di battaglia, pressoché assenti, solo evocate e mai davvero poste in scena.
Valeria Sarmiento ha radunato Carlos Sabota, sceneggiatore de “I misteri di Lisbona” di Raul Ruiz e un cast internazionale di amici della coppia Sarmiento-Ruiz, disposti a presenziare anche con semplici e sfuggevoli camei. Tra gli altri nomi da segnalare figurano quelli di John Malkovich, Catherine Deneauve, Isabelle Huppert, Michel Piccoli, Chiara Mastroianni, Mathieu Almaric e tanti altri ancora.
Ad ogni modo il film di Valeria Sarmiento, pur di pregevole fattura compositiva e registica, risulta troppo freddo, cerebrale, eccessivamente studiato per essere realmente convincente. La regista punta ad una rappresentazione della guerra filtrata da una dimensione metafisica e filosofica, ma dimostra ben presto di non possedere la padronanza giusta per perseguire fino in fondo i suoi obiettivi. Cioè che rimane è un film ben confezionato, ma che gira troppo spesso a vuoto. Voto: 5