A Roma si svolgono, e alla fine si intrecciano, le storie di tre coppie: Vilma e Franco, che in difficoltà economiche accettano l’invito dell’anziano Giulio e vanno a vivere a casa di quest’ultimo, Gaia e Stefano, lui figlio del proprietario di un importante circolo di tennis e lei figlia di un costruttore edile che si trasferisce a casa del ragazzo dopo il sequesto del suo loft appena acquistato; ed Enzo, oppresso da una madre invadente ed avara, che si innamora del poliziotto Andrea, sperando di poter un giorno condividere un tetto insieme. Tre storie con un denominatore comune: la casa, intesa come nido, come bisogno di intimità o come speranza, se correlata alle difficoltà economiche.
“Ci vediamo a casa” parte da una idea iniziale scomoda ma coraggiosa, rappresentando il mito della casa e della sistemazione al tempo d’oggi dove traproblemi di soldi, di carriera e di relazioni, il focolare domestico ha assunto toni utopici. Sono interessanti anche le sottotrame che riguardano l’omosessualità (quella di Nicolas Vaporidis e Primo Reggiani alias Enzo e Andrea) e un contrasto – piuttosto marcato – tra cittadini e forze dell’ordine con i primi mostrati come perseguitati o guidati dagli stereotipi e i secondi frustrati da un senso della giustizia labile che vede la felicità come esclusiva della gente onesta e senza macchia. Tanti buoni spunti, dicevamo, molta carne al fuoco, ma un barbecue riuscito piuttosto male a causa di una pressoché totale mancanza di vivacità e l’assenza di un climax. I tempi comici sono ridotti, i personaggi abbastanza stereotipati e ben presto una sorta di buonismo dilagante appesantisce il tutto fino a un improbabile finale riconciliatore.
Analizzando gli episodi uno ad uno (la messa in scena è comunque realizzata sfruttando una alternanza continua tra le tre storie) ci possiamo soffermare sull’episodio che vede coinvolti Vaporidis e Reggiani. La madre del primo (una convincente Giuliana De Sio) ci regala, nei panni di una “hippie capitalista” i pochi momenti esilaranti della pellicola grazie a una rappresentazione di una donna, ma ancora prima di una mamma, aperta di mente ma allo stesso tempo oppressiva, decisamente invadente e piuttosto cinica. I due ragazzi, chiamati ad una prova attoriale impegnativa, deludono rappresentando una coppia gay mostruosamente forzata, dai gesti, alle parole, alle effusioni. Tutto troppo finto per poter convincere. Della storia tra Vilma (Ambra Angiolini) e Franco (Edoardo Leo) salviamo, invece, esclusivamente i due protagonisti (spalleggiati da Antonello Fassari nel ruolo del padrone di casa Giulio). Anche in questo caso la base di partenza è interessante (lui è un ex detenuto) ma lo sviluppo e – soprattutto la conclusione – non aggiunge nulla, non dimostra, non denuncia, non chiarisce. Calma piatta.
La terza storia è quella che affossa definitivamente le velleità della pellicola e del regista Ponzi. In questo caso la coppia è composta da Gaia (una ragazza della Roma bene) e Stefano (Giulio Forges Davanzati) che la fanciulla conoscerà all’interno di un circolo sportivo dove lui è addetto alle prenotazioni. Alla prima uscita a cena scopriremo che è il figlio del proprietario del circolo (originale, vero?) e ben presto si consumerà la passione tra i due condita da una improbabile rivolta verso le autorità di lei (il padre viene arrestato) e situazioni più o meno assurde, tra sorrisini, smorfie, amplessi ed esposizione gratuite di seminudità fino a un finale inconcepibile. Sicuramente la peggiore delle tre storie.
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