Strana storia quella di “Fuori in 60 secondi“. Nato non certo per essere un capolavoro (e d’altra parte non realizzato come tale) ha comunque col tempo, conquistato una grande quantità di consensi. I più incalliti cinefili, ma anche solo quelli che ricordano un dialogo in particolare di “Deathproof” di Quentin Tarantino, sanno che è il remake del film “Rollercar sessanta secondi e vai!” di H.B. Halicki (per gli altri, me compreso, resta illuminante il web) e non sono state poche le critiche mosse a questa pellicola ai tempi (2000) del rilascio, anche per questo motivo.
Per lo più umoristici, gli attacchi erano portati al protagonista Nicolas Cage, colpevole secondo i più, di essere meno espressivo della maggior parte dei paraurti presenti nel film, ma anche se da questo punto di vista poco è cambiato, il tempo ha portato al film una fama più duratura di quanto ci si aspettasse. Tirato fuori dall’adrenalinico cilindro produttivo di Jerry Bruckheimer, il film si proponeva solo come l’ennesima fracassonata avventurosa, questa volta tutta incentrata sugli inseguimenti in auto e sull’hype di una Angelina Jolie al top del suo ruolo sociale di sex symbol.
Curiosamente, i personaggi del film hanno avuto la capacità di far affezionare il pubblico ad una storia sì poco banale, ma anche un po’ stramba. Randall “Memphis” Raines (Cage) è un leggendario ladro d’auto che si è ritirato da tempo. La visita di un suo ex compare lo costringe a ritornare alla sua vecchia vita, per riscattare un impegno che suo fratello minore Kip (Giovanni Ribisi) ha mandato a monte. A Memphis resteranno solo 72 ore per rubare le cinquanta macchine della lista o il signore del crimine locale appassionato di falegnameria (!) omaggerà Kip della sua ultima creazione: una bara.
La vera forza di questo film è da ricercarsi nella semplice linearità della storia e nel cast. La prima permette di costruire una narrazione semplice, che lascia spazio al secondo, che occupa la scena senza cadute di tono dall’inizio alla fine. Una grande cura nei dialoghi, ha fatto il resto, per raccontare una piccola avventura che è riuscita ad andare ben oltre le pretese iniziali. Dominic Sena alla regia svolge un buon lavoro tecnico, ma trova anche il tempo di regalare qualche sequenza spettacolare ormai patrimonio dell’umanità quanto i ralenty di John Woo o le lunghe disquisizioni di Nolan.
Si fano apprezzare proprio tutti, dai protagonisti ai caratteristi, ognuno preso in un coro di voci che ben dirette, non si sovrappongono mai e neanche stonano, tranne qualche contrappunto qua e la. E le auto, le auto fanno il resto. Nessuna nazione come gli Stati Uniti è passata dal cavallo alle automobili con una naturalezza tale, da consentire alla cultura di massa di trasferire lo stesso amore (spesso eccessivo) dagli uni alle altre. Basti pensare che se per i ladri di cavalli era prevista l’impiccagione, per il furto d’auto è molto facile passare il resto della vita in prigione.
E’ l’amore (ma anche il bisogno) per qualcosa che permette di coprire grandi distanze, specialmente parlando di mettere spazio fra se e ciò che ci angustia, opprime ed imprigiona. Insomma, mezzi che siano essi di carne o metallo, hanno sempre simboleggiato la libertà stessa e per questo, oggetti di culto, venerazione e desiderio. Talvolta di furto. Un film da rivedere.
Voto:
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