Olivier Assayas (regista della miniserie “Carlos”) con “Qualcosa nell’aria” realizza una pellicola da tempo agognata, una sorta di prolungamento di “L’Eau Froide” del 1994, giocando con gli anni della Rivolte francesi degli anni settanta e affidandosi a un cast composto – in maggioranza – da esordienti, come Clément Metayer.
Trama
Parigi, inizio anni settanta: Gilles è un giovane liceale preso dalla effervescenza politica e creatrice del suo tempo. Come i suoi compagni, esita tra un impegno radicale e delle aspirazioni più personali. Passando da rivelazioni amorose a rivelazioni artistiche, in un viaggio che attraverserà l’Italia e finirà a Londra, Gilles e i suoi amici dovranno fare delle scelte dolorose per trovare se stessi in un’epoca tumultuosa.
Giudizio sul film
L’incipit rischia di portare fuori strada: la messa in scena di violenti scontri per le strade francesi, il tutto realizzato con estrema minuziosità e con un velo polemico verso la polizia, potrebbe darci la sensazione di una pellicola di protesta e oltremodo violenta, là dove i lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo e la nube che ne deriva sono testimonianza di un vissuto – piuttosto realistico – in pieno clima post-sessantottino. Eppure Assayas sembra voler rappresentare più una realta intimista, e perché no autobiografica, aggrappandosi alla sua abilità autoriale, finalmente riconosciuta dal grande pubblico, e con colpevole ritardo, grazie alla serie sul terrorista Carlos.
Assayas parla con il cuore, e dal cuore di un gruppo di giovani ansiosi di cambiare lo staus quo e allo stesso tempo alla ricerca di una propria affermazione sociale e culturale. I ragazzi di “Après Mai” (titolo originale della pellicola) non sembrano aver ancora trovato il loro posto nel mondo e come anime tumultuose vagano su e giù per l’Europa (e non solo), confondendo emozioni e amori in un luna park generazionale ed ormonale.
Aspirazione personale o radicalismo politico? Sembra essere questo il vero dilemma della pellicola, nella sua onesta raffigurazione di una confusione dilagante che non permette – e la giovane età in parte è giustifcatrice – una certa fermezza nello schieramento.
I ragazzi – da sottolineare i numerosi esordienti – del film se possono apparire inizialmente come forti e già indirizzati, sono in realtà piuttosto fragili, vogliono dire, vogliono fare (e spesso fanno, come nella vigliacca aggressione a un vigilante) ma poi si fermano sul più bello quasi a voler improvvisamente virare verso una forma di esistenza che – non necessariamente borghese – appare più stabile ed umana.
La fotografia della pellicola, vintage e curata, perfettamente in linea con il periodo storico trattato, rappresenta un valore aggiunto anche se, soprattutto nelle scene in notturna, quello che veramente risalta sono le ombre, i movimenti, i suoni e i bisbigli.
Non manca una esperienza metacinematografica che accompagna i protagonisti del film. I documentari sulle condizioni disagiate di uomini e popoli che sognano la rivoluzione, opposti a un certo cinema di fantascienza di stampo tipicamente occidentale, sottolineano la necessità, in caso di completa adesione, di dover rispettare l’immaginario decalogo della rivoluzione che impone regole – implicite e non – e indirizza sui comportamenti – anche culturali – da tenere. Nella centrifuga emozionale rappresentata da quel periodo c’è spazio per l’amore, per i sogni – e bisogni – ma c’è anche molta amarezza, ripensamenti, omertà, vigliaccheria.
Lo script, oltretutto premiato, incatena, però, i protagonisti del film in un limbo superficiale con un montaggio, a tratti frenetico e vagamente surrealista, che rischia di far perdere l’orientamento.
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