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Die Hard – un buon giorno per morire: la recensione

Era il 1988 quando un poco più che trentenne Bruce Willis interpretava il poliziotto John McClane, diretto da John McTiernan, in “Die Hard” (da noi uscito con il titolo “Trappola di cristallo”), una delle pellicole action più amate dal pubblico e una delle saghe più fortunate di sempre, tanto che oggi, nel 2013, assistiamo al quinto episodio.

“Die Hard 5 – Un buon giorno per morire”, è diretto da John Moore (“Behind Enemy Lines”, “Max Payne”) e interpretato, oltre che dall’indistruttibile Bruce Willis, da Jai Courtney (visto recentemente in Jack Reacher) nei panni del figlio di John McClane, Cole Hauser (“Tigerland”, “2Fast 2Furious”), Sebastian Koch, Yuliya Snigir, Sergei Kolesnikov e Mary Elisabeth Winstead (Lucy McClane)

Die Hard - Un buon giorno per morire
Die Hard – Un buon giorno per morire

Trama

John McClane non riceve più notizie di suo figlio da alcuni anni, con un rapporto che si è logorato in seguito a una discussione tra i due. Grazie alle informazioni di un  collega scoprirà però che il suo primogenito è stato coinvolto in un assassinio in un night di Mosca e che da lì a poco dovrà sottoporsi a un processo, dal quale probabilmente uscirà con una condanna a vita. Senza farsi troppe domande, John parte per la capitale russa scoprendo un clamoroso intrigo internazionale degno della Guerra Fredda, nel quale il figlio, agente della CIA, è coinvolto.

Giudizio

La “Die Hard” Saga, al pari di “Arma letale”, è uno di quei fenomeni cinematografici creati ad arte e cuciti addosso a personaggi dal fisico indistruttibile, il grilletto facile, e il vocabolario ridotto. Così John McClane, eroe americano per antonomasia, è entrato nel cuore del pubblico ritagliandosi una fetta – abbastanza abbondante – di fan che seguono assiduamente le sue avventure. Proprio a loro è dedicato questo quinto capitolo della saga che ci riporta con la memoria alla guerra fredda, e alla catastrofe nucleare di Černobyl’, proponendoci villain dal sapore vintage, nel vestiario e nel linguaggio.

Lo script ridotto – anzi, spolpato come neanche una tagliata da due rottweiler – evidenzia tutti i limiti di base che una pellicola action può avere e nonostante si ricerchi un taglio speculare a quello dell’ultimo “Mission Impossible” (location moscovita inclusa) il risultato è un film senza pretese che propone sì, 100 minuti di fragoroso e anche divertente entertainment, ma fermandosi là assolutamente lontano dai primi capitoli della saga.

Parlavamo prima di “fisico indistruttibile” e cosa dire, allora, del buon McClane? Capace a cinquant’anni suonati di lanciarsi dalle vetrate di un palazzo sotto assedio, gettarsi giù da un ponte con un mezzo semicingolato e, infine, fare allegramente una “nuotata” in una pozza d’acqua in quel di Černobyl’. In mezzo tanti stereotipi, dai russi con il tatuaggio CCCP sulla schiena, al classico “maledetti americani” in una messa in scena che esalta gli Stati Uniti condannando la Russia al ruolo di “mina vagante”, sempre pronta a riprendere una eventuale nuova guerra fredda.

Malgardo tutto, la pellicola si lascia vedere – e sentire, considerato il non indifferente effetto sonoro – grazie ad alcune illuminanti riprese adenaliniche, su tutte un inseguimento tra le strade di mosca frentico, con una quantità imprecisata di macchine sfasciate, e a quel viso scolpito di Willis (Jai Courtney, che nel film interpreta il figlio riesce però a superarlo grazie a una inespressività preoccupante) che non sembra voler proprio rinunciare al suo “impiego” da poliziotto newyorkese.

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