“La grande bellezza”, ultima opera del regista Paolo Sorrentino, e attualmente in concorso al Festival di Cannes rappresenta il progetto più ambizioso del regista campano.
Centoquaranta minuti e un cast di attori ricchissimo che va da Carlo Verdone, a Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Serena Grandi, Lillo Petrolo, fino al brillante Roberto Herlitzka, per una pellicola corale, opulenta e a forti tinte drammatiche e grottesche. La Roma di Sorrentino sembra appartenere a un’altra epoca ma è allo stesso tempo tremendamente attuale
Trama
Jep Gambardella divenne famoso quando da giovane scrisse un romanzo, L’apparato umano, divenuto una sorta di lettura cult, tanto che a quarant’anni di distanza sono ancora in molti a ricordare ed osannare l’autore. Ma Jep, una volta pubblicato quel romanzo, si è fermato in una sorta di limbo, non producendo più nulla, reinventandosi come giornalista presso una rivista diretta da Dadina, una donna affetta da acondroplasia. Nonostante un ultradecennale blocco dello scrittore, Gambardella è un rappresentante della mondanità romana che lui osserva con occhio critico, costantemente impegnato nella ricerca di una utopica “grande bellezza” che lo possa risvegliare da un torpore autoimposto.
Giudizio
Mai titolo fu più profetico: nella ricerca di una perfezione che probabilmente è più sogno che realtà, il protagonista del meraviglioso affresco romano di Sorrentino, avrebbe potuto imbattersi nella pellicola del regista campano per rimanerne abbagliato. Così straordinariamente attuale, grottesca ma allo stesso tempo drammatica, con una capacità comica fuori dal comune, La grande bellezza è un miscuglio di generi che non crea discontinuità, bensì permette una amalgama che consacra il genio del cineasta de “Il divo” e, allo stesso tempo, dona linfa al cinema nostrano troppo spesso inghiottito in un calderone di pellicole omogenee e scarsamente ricche di contenuto, là dove spesso comicità fa tristemente rima con volgarità.
Senza dover scomodare “La dolce vita” Felliniana, quello di Sorrentino è un dipinto su tela, quasi espressione di più arti messe insieme (non a caso la ricchezza artistica e allo stesso tempo la decadenza della Roma “storica” accompagna costantemente il protagonista del film) che si fondono in una unica forma cinematografica, impeccabilmente messa in scena ed egregiamente recitata.
Dagli autisti un po’ sboccati alla nobiltà decaduta, dagli intellettuali da salotto (o terrazza con vista sul Colosseo) al coatto obeso che trova refrigerio nella fontana, dalla “stanza” sulla Prenetina alla suggestiva location della Villa del Priorato di Malta, dalle donne della Roma bene, alla spogliarellista borgatara e malinconica: Sorrentino viaggia a 360 gradi, così come la sua macchina da presa, insiste sul lusso per ingigantire il difetto dell’agiato o del borghese. Sbeffeggia la nobiltà, non ha paura di insistere sulla sottotrama religiosa, accentuata dalla stessa colonna sonora che ci avvolge in una lenta ma ipnotica musica sacra continua, e mette al centro della scena un personaggio dissacrante, un intellettuale pigro, vestito impeccabilmente e capace di citazioni colte che si muove tra i “nuovi mostri contemporanei” preoccupati dell’aspetto estetico (futuristica, la sala d’aspetto di un sedicente chirurgo capace di spillare centinaia di euro per pochi secondi di lavoro), e dai sentimenti traballanti ed effimeri, là dove i più caratterialmente interessanti sembrano essere gli stessi personaggi introversi e malinconici. Della serie: chi ha meno da dire, a volte, è perché non ha nulla di interessante da esprimere, o, se preferite, perché, semplicemente, preferisce esimersi dall’acchittare perspicue disquisizioni fini a sè stesse per nutrirsi, e forse ridere, della decadenza altrui.
Un piccolo capolavoro
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