“Gravity” di Alfonso Cuarón è stato il film d’apertura della settantesima edizione del Festival di Venezia.
Interpretato da George Clooney e Sandra Bullock, “Gravity” è stato realizzato in 3D con un ampio utilizzo di CGI e un dispendio notevole di forze per i protagonisti costretti in piccoli cubi che potessero ricreare una atmosfera simile a quella spaziale. Quattro anni di lavoro per il regista messicano e un cast non immediatamente definitivo (all’inizio per il ruolo di Clooney si era pensato a Robert Downey Jr e per quello della Bullock a Natalie Portman e Angelina Jolie) per uno dei progetti Sci-Fi più ambiziosi ed intriganti di sempre. La caccia al paragone è già partita arrivando a scomodare anche quella che rimane la pellicola di fantascienza spaziale per antonomasia, “2001 Odissea nello spazio”.
Trama
Sandra Bullock è la Dottoressa Ryan Stone, un geniale ingegnere medico alla sua prima missione sullo shuttle assieme all’astronauta esperto Matt Kowalsky (George Clooney) al comando del suo ultimo volo prima di ritirarsi. Ma quella che sembrava un’operazione abitudinaria, sfocia nel disastro. Lo shuttle viene distrutto, lasciando la Stone e Kovalsky completamente da soli, collegati a nulla se non l’uno all’altra, ruotando verso l’oscurità.
Il silenzio assordante conferma che hanno perso qualsiasi contatto con la Terra, e con esso qualsiasi possibilità di salvezza. Mentre la paura si trasforma in panico, ogni boccata d’aria si mangia quel poco di ossigeno che rimane.
Ma l’unica strada verso casa potrebbe essere spingersi ancora più lontano nella terrificante distesa dello Spazio.
Giudizio
Suggestivo, angosciante e decisamente claustrofobico. Potremmo riassumere così i novanta minuti, circa, della pellicola del regista messicano Alfonso Cuarón, ma sarebbe un giudizio quantomeno striminzito e che poco rende della maestosità dell’opera cinematografica partorita, che si nutre delle abilità fisiche dei suoi interpreti (una Sandra Bullock dalla invidiabile forma) e delle intuizioni stilistiche di Cuarón che ci delizia tra piani sequenza e Point of View capaci di stimolare una empatia naturale e per certi versi nuova. La soggettiva dal casco della Bullock, infatti, favorisce un disagio anche per lo spettatore soprattutto in virtù di una profondità di campo, data dalle ampie “praterie spaziali”. Disagio amplificato, se possibile, anche dal respiro affannoso della protagonista e da un senso di vuoto capace di inchiodarti alla poltrona, temendo il peggio.
Gravity non è però esclusivamente tecnologia. Certo, la pellicola raccoglierà diversi elogi e ammiratori soprattutto dai sostenitori indefessi dello Sci-Fi, eppure c’è un qualcosa in più. La caratterizzazione del personaggio interpretato da Sandra Bullock è evidente, è forte e tangibile. La contrazione del viso, lo sforzo della protagonista, però, non distoglie dal suo passato, semplicemente drammatico. Allo stesso tempo questo particolare è forza e debolezza del film. Il dolore interiore della Dottoressa Stone viene sviscerato ma assume i contorni di una forzatura a favore del pubblico. La Stone che combatte contro i demoni del passato e lo stesso Kowalski un po’ guascone (comunque ben interpretato da Clooney), sembrano personaggi nati per piacere “forzatamente”. Ma sono dettagli, veramente. “Gravity” è una odissea dei tempi moderni nella quale nulla è lasciato al caso, dove ogni singolo giorno di ripresa viene gratificato da un lavoro di insieme maestoso e difficoltoso che rende ogni dettaglio sulla scena pressoché impeccabile.