Kimberly Peirce (“Boys Don’t Cry”) dirige un nuovo adattamento del celebre libro scritto da Stephen King nel 1974.
L’opera di King aveva già ottenuto la gloria cinematografica grazie alla spendida trasposizione curata nel 1976 da Brian De Palma. Una pellicola ancora oggi ricordata come tra le migliori di genere. Chloë Grace Moretz e Julianne Moore prendono il posto di Sissi Spacek e Piper Laurie nei panni, rispettivamente, di Carrie White una giovane adolescente vessata dai suoi coetanei e Margaret White, la madre bigotta.
Trama
Carrie è una ragazza che frequenta l’ultimo anno delle superiori e non riesce a stringere un rapporto di amicizia con le compagne di scuola e ha un approccio timido verso i ragazzi. Frutto di una educazione rigida e fondamentalista data dalla madre, una fervente cristiana che ha tenuto la ragazza per anni come segregata in casa. In occasione del menarca di Carrie, quest’ultima è spaventata dalla improvvisa fuoriuscita di sangue non conoscendo a fondo il proprio corpo e viene fatta vittima di uno spregevole atto di bullismo ripreso e trasmesso sul web. Avvicinata da un ragazzo che la invita al ballo di fine anno, soprattutto per compassione, si scatenerà la furia omicida della ragazza che nel frattempo ha scoperto di avere poteri telecinetici.
Giudizio
Nonostante venga etichettato come un horror, Carrie, soprattutto l’opera di De Palma, è un film che guarda oltre all’immaginario di riferimento per infilarsi in un filone drammatico ancora straordinariamente – e tristemente – attuale come quello dell’ emarginazione e del bullismo. Piaghe della nostra società amplificate dall’utilizzo malsano dei mezzi di comunicazione, sopratttutto social, che spesso vengono utilizzati per dileggiare il “diverso”.
E quando il “diverso” ormai arrivato al limite dell’esaperazione si trasforma in un carnefice non possiamo fare a meno di pensare e riflettere sulla capacità di sopportazione di un essere umano. Quante vittime del bullismo si trasformerebbero in novelle Carrie se solo fossero dotate degli stessi poteri? Probabilmente molte.
Rispetto al romanzo di King, ma questo già era evidente nel film di Brian De Palma, l’atmosfera è meno inquietante, la costruzione dei personaggi è troppo superficiale (decisamente più apprezzabile la caratterizzazione dei personaggi nel film del 1976) e il trasportare la storia nel ventunesimo secolo, pur volendo apprezzare il coraggio, appiattisce la pellicola avvicinandola più ai film horror di nuova generazione.
La ragazzina goffa e brutta di King si trasforma qui in un cigno e nonostante la Moretz si confermi una talentuosissima attrice è ben poco credibile nel ruolo. Julianne Moore risulta decisamente monocorde e ben lontana dalla performance di Piper Laurie che garantì all’attrice una nomination ai Premi Oscar. Probabilmente entrambe non vengono aiutate dallo script che rimane più fedele al romanzo di King, soprattutto nel finale, ma non ci restituisce la dimensione di una famiglia annientata dalla fede religiosa.
La spettacolarizzazione delle morti e un utilizzo ampio dello slow- motion, infine, ricordano un cinema di genere che negli ultimi anni ha deviato, anche a causa dell’incidenza della tecnologia, su un binario dove l’impatto visivo ha il sopravvento sul linguaggio, basti pensare alle saghe di Saw e Final Destination.
Una occasione sprecata.