A metà ottocento Solomon Northup scrisse una toccante autobiografia sui drammatici avvenimenti che lo videro protagonista in una America dilaniata dalla divisione razziale.
Northup, talentuoso violinista e uomo nato libero, così come sua moglie e i suoi figli, venne incredibilmente rapito da due loschi impresari e condotto in un campo di cotone della Louisiana. Qualsiasi tentativo di Solomon fu vano, l’uomo ovviamente sprovvisto di documenti venne venduto a un mercante di schiavi che in seguito cedette le sue prestazioni a un proprietario terriero. Fu solo l’inizio dell’incubo: successivamente e per ben dodici lunghi anni, Solomon ha dovuto sopportare le angherie di violenti “padroni” sotto il sole cocente del Sud degli Stati Uniti. La sua storia viene ora raccontata da Steve McQueen, talentuoso regista già celebre per “Hunger”, pellicola che raccontava gli ultimi giorni di vita di Bobby Sands, e “Shame”, un film sulla dipendenza sessuale nel quale si fece notare Michael Fassbender, ormai attore feticcio dello stesso regista. “12 anni schiavo”, candidato a 9 Premi Oscar, affronta il tema della schiavitù partendo da un punto di vista privilegiato, da una testimonianza diretta di chi quell’orrore, uno dei peggiori della storia della umanità, lo ha vissuto di persona. Ancora più drammaticamente reale perché parte da una condizione di libertà, evidentemente chimera all”epoca per la popolazione di colore, per trasformarsi in una continua tortura psicologica e fisica, quest’ultima quasi evocata da una sinistra filastrocca razzista.
Il film
C’è poco di McQueen in “12 anni schiavo”. Il regista inglese appare quasi intimorito dal contesto atipico e risulta eccessivamente ossequioso verso la letteratura di riferimento. Evidentemente coinvolto dalla storia ma incapace di mettere in scena quello stile coraggioso e virtuoso che avevamo ammirato nelle sue precedenti opere. Non mancano, evidentemente, alcune scene che richiamano direttamente la poetica del cineasta britannico, su tutte un viaggio nelle melmose paludi della Louisiana a bordo di una zattera, o una pubblica impiccagione in un campo di cotone dove il silenzio viene interrotto solo dallo strusciare incessante del protagonista, in un tentativo estremo di tenersi in vita, ma sembrano gocce di un oceano altre volte immenso. Aiuta, e non poco, la colonna sonora del maestro Hans Zimmer, che per questo film ha scelto una musica decisamente tradizionale tra archi, fiati e percussioni. Una partitura “umana” che emoziona ma allo stesso tempo appare come poco invadente, quasi intimista. La ricostruzione storica, infine, è minuziosa, attenta al dettaglio e rappresenta in maniera egregia quella triste porzione di storia americana.
Commenti finali
Già in Hunger e Shame, McQueen ci aveva avvicinato a storie reali, dove veniva a mancare la libertà, un diritto inalienabile dell’individuo. La prigionia di Bobby Sands, la dipendenza sessuale di Brandon e la schiavitù di Solomon hanno dei punti in comune: sono storie disumane, racconti storici o meno che invitano a riflettere e dove McQueen stesso sembra voler rimanere distaccato, ossessionato dai suoi piani sequenza che, da lontano, lo pongono sullo stesso piano dello spettatore. “In 12 anni schiavo”, però, rispetto al passato, questa posizione appare meno netta con un risultato finale comunque apprezzabile ma senza firma, d’autore.