As Time goes by.
…e un uomo urlò nella sala buia: il cinema non ė morto!
Il cinema è ancora vivo signori, vivo e vegeto, come dimostra Boyhood, brillante esperimento finalmente giunto alla conclusione, dopo più di una decade di riprese.
Solo un regista sdoganato e con un trascorso di film indipendenti e minimali come Richard Linklater (Fast Food Nation, Waking Life, Slaker), poteva riuscire nell’impresa di rendere ancora più chiara quell’espressione di Tarkovsky per cui il regista scolpisce il tempo.
Nel corso di dodici anni ogni anno, Ethan Hawke —forte di una pluriennale collaborazione con Linklater—, Patricia Arquette —anch’ella già presente in Fast Food Nation—, Lorelai Linklater, figlia del regista ed Ellar Coltrane, si sono trovati 39 giorni per fermare con la macchina da presa lo scorrere del tempo sul volto dei protagonisti.
Boyhood non è solo uno straordinario esperimento cinematografico, ma è anche una veridica fotografia sulla vita e la storia degli ultimi anni degli U.S.A, l’epos di un popolo letto attraverso gli occhi di un bambino, nonché un vero e proprio romanzo di formazione in cui a crescere e maturare non è solo Mason, in viaggio dall’infanzia alla adolescenza —per l’appunto quel periodo che gli anglofoni chiamano Boyhood—, ma tutta la famiglia, genitori compresi.
Olivia, la giovane madre, ha un gusto discutibile in fatto di uomini che porterà lei e i suoi due figli a dover convivere con una sfilza di ubriaconi spesso violenti. L’alcol un altro protagonista del film, e mostra come esso, come ogni forma di dipendenza, obblighi i bambini a crescere prima, a divenire grandi: formidabile in questo senso recitazione del piccolo Coltrane, misterioso, etereo, quasi triste, un piccolo adulto.
Linklater enfatizza molto la differenza fra il tempo che i figli passano con la madre Olivia, seria, instabile e perennemente preoccupata di impartire loro una buona educazione, e quello trascorso nei weekend sulla magica macchina del padre, Mason Sr.
Come lo stesso regista auspicava, il film ci insegna ad amare i nostri genitori e guardare, retrospettivamente all’educazione che ci hanno impartito, con la consapevolezza che anche loro stavano crescendo assieme a noi.
La pellicola riesce meravigliosamente a dipingere un affresco della maturazione non solo fisica dei genitori, come appare evidente verso la fine della pellicola, quando, alla festa per il diploma di Mason i due paiono più calmi ed equilibrati, come se avessero essi stessi raggiunto un traguardo. Altro tema che si nasconde latente fra le pieghe del film pare essere il legame fra età e felicità, crescita e serenità. Esiste forse una “età dell’oro” della spensieratezza”?
Angosciante una delle frasi finali della madre, sistematasi in un piccolo appartamentino senza più alcolisti al suo fianco, quando, guardando alle tappe che hanno scandito la sua vita dice che credeva ci sarebbe stato di più.
L’opera pare quasi rivolgersi a noi e chiederci se siamo davvero contenti di quello che abbiamo vissuto, o se non ci pare piuttosto di esserci accontentati di ciò che ci si aspetta, di ciò che la società e gli altri si aspettano da noi.
A prescindere dalle critiche più o meno condivisibili che sono state mosse al film, per cui Linklater ha peraltro vinto l’orso d’argento al Festival di Berlino come miglior regista, bisogna gioire e sapere apprezzare ciò che Boyhood, oltre ad una storia forse già vista ci regala: l’ingresso in una nuova fase del cinema.
A maturare e crescere forse non è solo la famiglia di Mason, ma il cinema stesso.