A due anni di distanza da Sette giorni all’Avana, Laurent Cantet (Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2008 per La Classe) torna a Cuba assieme al romanziere e sceneggiatoreLeonardo Padura.
Ritorno a L’Avana è la raffigurazione corale di cinque amici che un giorno al calar del sole si incontrano per festeggiare il ritorno di uno di loro, Amedeo (Néstor Jiménez), dopo 16 anni di esilio a Madrid.
Come Tania (Isabella Santos), unica donna della “allegra” brigata, ironizza, se l’aspetto è quello di un reparto di geriatria, un animo da ragazzini li conduce in viaggio al termine della notte ballando, ridendo, bevendo e rammentando la giovinezza trascorsa insieme.
Grazie ad un eloquio spontaneo e naturale i cinque affrontano temi e drammi comuni a buona parte della generazione cubana nata con la Rivoluzione, dal dramma dell’esilio alle crisi interpersonali, dalla lotta per la sopravvivenza economica all’acquiescenza come stile di vita, passando per la speranza nel cambiamento fino alla sconfitta spirituale.
Certamente quello fornitoci da Cantet non è l’unico ritratto possibile ma è senza dubbio una raffigurazione realistica e veritiera di una generazione perduta, quella nata tra il 1955 e il 1966, nel periodo cioè della rivoluzione.
Pare quasi sorprendente che un francese sia riuscito ad entrare così profondamente nel vivo di dinamiche e piaghe estranee alla sua storia. Sicuramente la perizia del regista è stata in questo senso formidabile ma, come lui stesso ebbe a dire, un cubano non avrebbe mai potuto realizzare questo film perché, nel caso fortunato in cui avesse ottenuto i finanziamenti, ne avrebbe difficilmente ottenuto l’autorizzazione. Inoltre, proprio in quanto straniero, Cantet è capace di dire ciò che tra i cubani è così noto da venire omesso dalle narrazioni ufficiali. È sorprendente come la lontananza geografica e culturale del regista francese non abbia in alcun modo dato adito ad alcuna freddezza narrativa o disinteressato distacco.
Sebbene della sceneggiatura spicchi il sapore teatrale, esaltato da una drammaturgia classica, l’unità di tempo e luogo —tutto il film è ambientato sulla stessa terrazza per la durata di una notte— cozza con la natura del lungometraggio che diventa a tratti di difficile digeribilità e lento: lungi dall’offrire respiro, persino la terrazza, esposta sui tetti de L’Avana e sul mare, diviene un luogo da cui sembra essere impossibile uscire.
Ritratto plurale di una generazione perduta che ritrova ora, almeno nelle parole e nei sogni infranti dei suoi protagonisti, quella Itaca cui agognava e che non ha mai raggiunto: non è certo un caso se il titolo originario della pellicola è proprio “Retour à Ithaque“.