BIG EYES è l’incredibile storia di una delle più leggendarie frodi artistiche di sempre, uno di quei film che, se i titoli d’inizio non ci avvertissero essere basati su una storia vera, parrebbe essere puro frutto di fantasia, nessuno ci crederebbe.
A cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, quando ancora non era di moda passare da un matrimonio all’altro, Margaret (Amy Adams) lascia il primo marito alla ricerca di un nuovo inizio.
Ha solo i suoi quadri nel bagagliaio e la figlia seduta sul sedile posteriore quando incontra Walter Keane (Christoph Waltz), carismatico pittore della domenica, che la convince di essere sull’orlo di un indicibile successo.
Così fu, peccato che la fortuna arrise non Margaret bensì l’audace Keane, protagonista di una vera e propria rivoluzione del mercato dell’arte —lo stesso Andy Warhol dichiarò di aver imparato molto da lui—, che non si lasciò perdere il potenziale emotivo e il coinvolgimento empatico che i bambini dai grandi occhi —delle frittelle strapazzate, dei caramelloni ripieni, come alcuni ebbero a dire inizialmente— dipinti dalla moglie, potevano suscitare sul grande pubblico.
Keane seppe fare buon viso a cattivo gioco fino a quando non emerse una verità tanto assurda quanto sconvolgente: i quadri in realtà non erano suoi ma frutto del genio artistico della moglie.
Nel 1986 ebbe quindi luogo uno dei più assurdi processi per frode artistica che siano mai stati combattuti,e da cui Margaret uscì vincitrice e risarcita per la modica cifra di 4 milioni.
Da quel giorno Keane non dipinse più un quadro e si spense nel 2000, senza mai ammettere la propria colpevolezza.
Nel 2003 la coppia di sceneggiatori Scott Alexander e Larry Kareszewki, già amanti dei biopic (Man on the Moon, Larry Flynt-oltre lo scandalo), vennero a conoscenza dell’incredibile storia di Margaret e Walter Keane, i due pittori degli anni sessanta tra i più famosi e venduti. Incuriositi, cominciarono a documentarsi su una vicenda che sarebbe diventata un lungometraggio solamente dieci anni dopo. Catturati dell’assurda storia, volarono a San Francisco per conoscere Margaret, la quale —sebbene avesse già rifiutato diverse proposte per una trasposizione cinematografica della sua vita—, accettò la proposta e li aiutò a comprendere meglio la verità.
Non sorprenderà certo sapere che Margaret e Tim Burton si conoscevano da molto prima che nascesse l’idea della sceneggiatura del film. Il regista infatti aveva commissionato alla pittrice diversi ritratti e comprato alcuni dei suoi quadri. Certamente, pensando all’estetica e all’iconicitá di alcuni dei suoi film — uno su tutti la caratterizzazione fisica in Nightmare before Christmas —, non ci stupirà sapere di questo sodalizio artistico.
Se inizialmente aveva aderito al progetto dei due sceneggiatori in veste di produttore esecutivo non fu certo difficile per Burton assumersi la regia del lungometraggio: egli si identifica bene nel ruolo dell’outsider art (l’arte praticata da autodidatti o da pittori naïf sdoganati dagli insegnamenti accademici).
Egli stesso si è più volte pubblicamente domandato perché l’arte debba essere legittimata o approvata dal giudizio dei critici — chi scrive si sente ora un po’ a disagio —, e in effetti Big Eyes parla, non molto velatamente, proprio di questo: di arte grezza, di amore e sentimenti espressi attraverso l’arte non istituzionalizzata, scevra da conoscenze accademiche o legittimazioni esterne.
Burton infatti, regista visuale e innovativo è uno degli autori di maggiore successo nel cinema contemporaneo specie nel genere d’animazione e nel live-action, sebbene ci si dimentichi troppo spesso del suo contributo come pittore e disegnatore—da questa passione nel 2009 è nato The art of Tim Burton, un volume di 430 pagine che documenta oltre quarant’anni di progetti, e che nel novembre dello stesso anno il Museum of Modern Art di New York inaugurò con una grande mostra itinerante—.
In questo senso BIG EYES è un’opera perfetta, che riassume in sè tutti i molti talenti che il suo regista coltiva e che, come un fiume carsico, sono emersi nel corso del tempo.
Tim e Margaret hanno molto in comune, entrambi sono unici, iconici, la loro arte è esteriormente kitsch ma sentita dal cuore: parla alle persone, rappresenta emozioni, non può essere fruita passivamente.
Il film a basso costo — si intende un low budget per gli standard della sfarzosa Hollywood, quindi si parla di circa 10 milioni di dollari — vanta un cast tecnico spettacolore che è stato capace di produrre risultati all’altezza dell’impronta visuale che ha sempre caratterizzato le opere di Burton.
La storia narrata è minuziosamente precisa e documentata, molti dei quadri che appaiono sono stati ristampati su tela, mentre per quelli inquadrati in primo piano è stata applicata una pittura vera in modo tale da renderne la trama e le pennellate. A questo pro è stata addirittura ingaggiata una vera e propria pittrice di scena, Lisa Godwin, che, in tre soli mesi di pre-produzione, ha creato e ricreato molti dei quadri della Keane che appaiono nel film.
Lo stesso immane e perfetto lavoro è stato magnificamente affrontato da Colleen Atwood (pluri-premiata premio Oscar), che ha dovuto vestire circa duemila persone e ricreare lo stile personale di Margaret, semplice, pratico e dimesso.
Certo la pellicola affronta molti — forse troppi?— temi scottanti, dalla commercializzazione dell’arte al ruolo della critica, ma il prodotto finale è mirabile e stupefacente nella sua semplicità.