Forte del successo di Checco Zalone e del trionfo natalizio di Aldo Giovanni e Giacomo con Il ricco il povero e il maggiordomo, la Medusa Film torna con un annunciato successo di botteghino: Maccio Capatonda è pronto a invadere le sale italiane con ben 400 copie del suo Italiano medio.
Marcello Macchia, meglio noto come Maccio Capatonda, grazie a numerosi trailer parodici di film famosi, e vari cortometraggi -da Natale al cesso a L’uomo che non reggeva l’alcol-, è presto divenuto fenomeno del web amatissimo dai cinefili e non, tanto da divenire ideatore, regista e interprete principale della serie televisiva Mario.
Ma in onore a una tradizione tutta italiana che vuole che i comici, re della battuta e dello sketch veloce e leggero, debbano ad ogni costo prodigarsi anche in lungometraggi sul grande schermo, dal 29 gennaio potremmo ammirare il primo tentativo registico di Maccio. La vicenda narra la triste storia di Giulio Verme (interpretato dallo stesso Maccio), milanese socialmente impegnato, alieno da ogni massificazione (dalla tv alla moda), convinto di potere, nel piccolo della casa che condivide con la compagna di sempre, Franca (Lavinia Longhi), cambiare il pianeta.
Ben presto però, la radicalità delle sue scelte lo porterà ad una situazione di sempre maggiore isolamento dalle persone con cui si trova, dalla fidanzata, ai colleghi di lavoro, fino ai genitori, tutti esacerbati dal suo comportamento estremo, chiuso al dialogo e così convinto che il suo stile di vita sia il migliore possibile. Solo e abbandonato finisce per diventare ridicolo, macchietta di se stesso, parodia vivente dell’alternativo.
Le cose sembrano andare sempre peggio, sino a quando il diavolo sotto le mentite spoglie dell’italiano medio busserà alle sue porte: Alfonzo (Herbert Ballerina), un vecchio compagno di scuola, gli offre di provare una pillola miracolosa che gli consentirà di utilizzare il 2% del suo cervello. La metamorfosi da angelo serafico amico dell’ambiente e del prossimo in diavolo cafone, amante di reality show, discoteche che paiono bolge di lussuriosi, è presto fatta: rinnegando tutto quello per cui si era sempre lottato, Giulio diviene l’apoteosi del vero italiano medio.
Nulla avviene per caso, come ben si evince dagli spassosi –e, ahimè-, non falsi- titoli di testa (Tratto da una storia finta), che, caricando fin da subito il film di una verve autoironica, palesano una certa vena cinefila dell’autore, che non a caso nasconde lungo tutta la pellicola omaggi a film-cult, come Matrix, Arancia Meccanica e Fight Club.
Tuttavia il passaggio da you-tuber a regista cinematografico comporta un cambiamento di registro, tono, battute e unità narrativa che forse sono sfuggiti dalle considerazioni di Maccio e dei suoi, più preoccupati e proporre un repertorio di elementi comici già visti e stra visti, tanto che il raccordo tra una scena e l’altra risulta piuttosto spinto e non molto naturale. Oltre al formato e allo stile neppure la comicità cambia di molto, basandosi sempre su errori della lingua italiana, termini desueti o decontestualizzati, o erroneamente pronunciati. Ancora una volta Capatonda fa parlare i suoi personaggi come goffi analfabeti, creando una realtà linguistica certo non molto dissimile da quella che possiamo sentire per strada. Come da copione passa poi a ridicolizzare trasmissioni televisive quali pubblicità, reality e telegiornali.
Dopo un po’ il buon Giulio Verme capisce che non tutto è bianco o nero, e, per dirla con una citazione che il pubblico italiano che utilizza il 2% del suo cervello ha mostrato di avere apprezzato, ci sono molte sfumature di grigio in mezzo. Eccolo pertanto piegarsi alla non nobile arte del compromesso: essere vegani e mangiare pollo fritto, andare in chiesa la domenica e andare a prostitute, difendere il bio e l’eco sostenibile e inquinare a più non posso. Opposti apparentemente inconciliabili, ossimorici per non dire antitetici ma che, nella nostra realtà sono riusciti a vivere egregiamente, se il “bel” paese continua senza batter ciglio ad accettare mostri edilizi, scandali politici e via dicendo.
Ciò che più merita di questo primo tentativo di Maccio Capatonda sul grande schermo è il fatto che il pubblico in sala ride e si diverte… con l’amara consapevolezza che non sta ridendo d’altri che di se medesimo.