Quando nel 1950 Disney decise di produrre Cenerentola, la triste storia d’amore di una giovane eroina bistrattata, non sapeva di essere di fronte a uno dei successi più acclamati della sua produzione.
Con un budget di quasi 3 milioni di dollari, fu un enorme rischio finanziario per gli Studios, ma alla sua uscita nelle sale incassò circa 35 milioni di dollari, confermando la Disney come una delle maggiori compagnie nell’industria cinematografica della storia.
Oggi, dopo 60 anni, gli Studios hanno voluto riportare Cenerentola sul grande schermo.
Il motivo non è noto, ma forse l’implicita consapevolezza di peggiorare una realizzazione di per sé già perfetta e intoccabile, era troppo seducente per potervi rinunciare.
Non si può certo affermare che la rivisitazione di Kenneth Branagh della fiaba non sia riuscita a non catturare lo stesso fascino e senso di magia di cui la versione Disney era intrisa.
Certo, questo potrebbe non essere un problema, se lasciasse sperare a una moderna rivisitazione della storia o a un ritorno alla pressoché sconosciuta vicenda originale —le origini della fiaba risalgono al l secolo d.C—, ma nulla di tutto ciò è stato minimamente preso in considerazione.
Kenneth Branagh alla regia e Chris Weitz alla sceneggiatura, mossi forte da un certa nostalgia per i bei tempi andata della fiaba, con ortodosso tradizionalismo ripropongono la ben nota vicenda senza scostarsi mai troppo dal precedente lavoro della Disney.
Il problema è che la mancanza di significative alterazioni fra queste due versioni, fa sorgere nello spettatore la lecita domanda sul significato e l’intento di questo ambizioso progetto.
Lily James (nota ai più per Downton Abbey) è la protagonista che, orfana di madre (Hayley Atwell) e padre (Ben Chaplin), è lasciata nelle grinfie della vendicativa matrigna Lady Tremaine (magnificamente interpretata da Cate Blanchett, splendida nel ruolo). Cenerentola è quindi emarginata dalla sua nuova famiglia, in cui cade al rango di serva sia della madre-padrona sia delle volgari sorellastre, Genoveffa (Sophie McShera) e Anastasia (Holliday Grainger).
La storia procede come tutti sappiamo: un giorno la poverina conosce in un bosco un giovane fascinoso (Richard Madden), che si spaccia eufemisticamente per un apprendista a palazzo reale. Il resto è noto: i due si innamorano, il ballo, la scarpetta, l’ostilità della matrigna, il matrimonio e vissero tutti felici e contenti.
È davvero curioso —nonché distonico rispetto alla condizione femminile d’oggi—, che la produzione abbia scelto di conservare il messaggio di gentilezza quale super-potere del classico originale per adattare la storia al pubblico moderno.
I produttori si sono mostrati convinti che la potenza della storia potesse, da sola, dar vita a un’esperienza cinematografica di grande intrattenimento.
Certo, portare un personaggio fiabesco come Cenerentola in un mercato cinematografico dominato da eroi maschili é una sfida non indifferente, ed è forse per questo motivo che la produzione ha deciso di sublimare la totale assenza di significato, originalità, o brio della produzione, con una scenografia e dei costumi davvero considerevoli.
Il pluripremiato scenografo Dante Ferretti, celebre per collaborazioni con Fellini, Scorsese, Zeffirelli e Coppola, ha svolto un’enorme lavoro durante la preparazione del film, e il risultato è davvero encomiabile, forse l’unico aspetto a non lasciare l’amaro in bocca (oltre ad un gran senso di noia) allo spettatore. Basti pensare che per la scena del ballo a palazzo il set è stato interamente ricostruito ai Pinewood Studios nel famoso teatro di posa 007, in cui per l’occasione è stata costruita una sontuosa sala da ballo, comprendente un’immensa scalinata, pavimenti e muri di marmo, migliaia di fiori, venti lampadari realizzati appositamente a Venezia e provvisti ciascuno di quasi cinquemila candele a olio da accedere manualmente.
Certo, la grandiosità, lo sfarzo il lusso sfrenato —per non parlare del vestito che la James indossa al momento del ballo, o delle scarpette che Swarovski ha realizzato apposta per lei— sono così tangibili che pare venire a mancare totalmente il senso della vicenda.
Un vero peccato, per un cast che vede, tra gli altri, Helena Bonham Carter come fata madrina, e Stellan Skargsgård nei panni dell’astuto Granduca.
Più che una genuina riproposizione di una storia che potrebbe veicolare valori universali —ma atteggiamenti lievemente anacronistici —, pare essere una triste e bieca autocelebrazione dello sfarzo e dell’opulenza dell’industria cinematografica oggigiorno, capace di creare prodotti fini alla mera fruizione visiva, e ahimè quanto mai scevri da qualunque vita propria.