Forte del successo di Moneyball- l’arte di vincere, come suo quarto lavoro Bennet Miller si confronta di nuovo con una pellicola drammatica sportiva, The Foxcatcher, in cui narra la vera storia dell’omicidio del lottatore medaglia d’oro alle olimpiadi del 1984 David Schultz, avvenuta nel 1996 per mano di John Du Pont, amico, mentore e allenatore del pugile.
Il film, adattamento per il grande schermo di Foxcatcher. Una storia vera di sport, sangue e follia, scritto da Mark Schultz, fratello di David, segue una linea narrativa semplice e chiara, senza virtuosismi stilistici o particolari usi della macchina.
I colori freddi, l’inquieta tranquillità di cui ogni cosa è avvolta e la climax crescente degli eventi, rendono la vicenda perturbante e la calma apparente con cui tutto scorre, sospetta.
La musica è praticamente assente: nulla ci dice come dovremmo sentirci o da quale sentimento dovremmo essere animati.
La perizia di Miller nell’indagare l’interiorità psicologica dei protagonisti è notevole, e non ha a caso gli è valsa il premio come miglior regia al Festival di Cannes.
John du Pont, giovane rampollo di una delle più ricche famiglie americane, vive in un’immensa tenuta con l’opprimente madre, un’invalida in sedia a rotelle che compare solamente due volte nel corso di tutto il film, sebbene la sua presenza sia totalizzante sulle scelte del figlio, alla costante ricerca della sua ammirazione e del suo consenso. Per questa totale chiusura nei confronti del mondo esterno e dipendenza dal genitore, pare che Miller abbia voluto col suo personaggio omaggiare Norman Bates, lo psicopatico per antonomasia. È in questo senso magnifica l’interpretazione fornita da Steve Carell, quasi irriconoscibile grazie ad una protesi nasale e a una poker face che rende impossibile scorgere alcuna traccia di emotività o umana empatia.
La storia indaga l’insana relazione che Du Pont sviluppò, a cavallo degli anni ottanta e novanta, con Mark Schultz (Channing Tatum), di cui seppe sfruttare e manipolare l’insicurezza e il senso di frustrazione che questi nutriva nei confronti del fratello, sentimentalmente e lavorativamente più realizzato.
Miller descrive con distacco e freddezza l’alchimia che si sviluppò fra i due uomini, uno strano rapporto dai latenti connotati sessuali, basato sulla carenza di amore di cui entrambi soffrivano.
Se Mark vive all’ombra del fratello (nel film Mark Ruffalo) che vorrebbe abbracciare anziché riempire di pugni durante gli allenamenti —come mostrato nella prima scena— e si infligge autopunizione tutte le volte in cui non raggiunge l’obiettivo prefissatosi; il manipolativo Du Pont ha colto che dietro la presenza statuaria del pugile si nasconde una tenerezza sconfinata, facilmente utilizzabile per i suoi bassi fini.
Merito del regista è quello di non aver voluto erigere la vicenda ad allegoria di qualcosa di altro da sé cadendo nella tentazione di farne un epos nazionale, ma di averla trattata nei limiti della biografia senza sentimentalismi o truismi.