Nelle sale dal prossimo 30 Aprile, Child 44 sta facendo parlare di sé prima ancora di uscire. Pare che l’ultima fatica di Daniel Espinosa –alla regia– e Ridley Scott –alla produzione– non sia piaciuta granché alla critica americana e non abbia neppure incontrato i favori di Vladimir Putin, che dopo essersi recentemente scagliato contro Leviathan non ha gradito questa l’immagine della Russia stalinista e dell’MGB –padre del KGB da cui Putin stesso proviene–.
Certo non si può negare che Child 44 faccia un po’ di confusione e tiri troppo la corda con la pazienza e la capacità di resistenza dello spettatore di fronte a scene di violenza, sevizie fisiche e torture psicologiche.
Lungo i suoi 137 minuti saturi di colori freddi, musiche martellanti e scenari nauseabondi, la pellicola stringe più volte l’occhiolino a situazioni filmiche e scelte registiche già viste, collocandosi a metà strada fra la suspance psicologica de Il Silenzio degli innocenti e soluzioni alla Dottor Zivago. In particolar modo uno degli ultimi dialoghi –lo spettatore accorto non potrà non avvedersene– pare essere la copia malriuscita del magnifico monologo-confessione finale de Il Mostro di Dusseldorf.
Ma non tutto il male vien per nuocere.
Child 44 ha infatti l’onere e l’onore di rispolverare alcuni aspetti del regime stalinista su cui la coscienza politica moderna aveva preferito non indugiare. Sarebbe in questo senso storicamente utile, nonché socialmente proficuo voler sviscerare i motivi che hanno spinto il panorama cinematografico internazionale a disseppellire tristi vicende.
Leo Demidov (Tom Hardy) orfano diventato eroe di guerra durante l’invasione dell’Armata Rossa a Berlino nel ’45, è un perfetto prodotto del sistema Sovietico. Elemento di punta dell’MGB –il servizio di sicurezza nazionale dello Stato–, per cui opera come investigatore delle operazioni dei dissidenti, è sposato con la bella Raisa (Noomi Rapace), un’insegnate con cui vive a Mosca. Costretto a indagare sul presunto tradimento politico di lei, Leo si occupa anche del caso di un ragazzino trovato morto nei pressi di una stazione ferroviaria. Nonostante tutti gli indizi conducano inevitabilmente alla strada dell’assassinio, aderendo ai regimi stalinisti per cui “non ci sono omicidi in paradiso”, Leo si trova costretto a descrivere l’incidente al padre del fanciullo, un amico d’infanzia nonché collega (Fares Fares) nei termini di un tragico incidente ferroviario.
Questo triste avvenimento farà scontrare Leo con la propria coscienza: aderire al dettame di Stalin per cui l’omicidio è un morbo capitalista che non può esistere in Russia, o fare giustizia e porre fine a una strage che dilaga a macchia d’olio da Mosca a Rostov? Ancora, denunciare la moglie ottenendo così una promozione lavorativa, o salvaguardare la stabilità domestica?
In questo senso Child 44, lungi dal soffermarsi sulla spaventosa e reale vicenda del Mostro di Rostov –accusato della brutale uccisione di 53 donne e bambini fra il 1978 e il 1990, ma riconosciuto colpevole solo nel 1990–, rinunciando a quel gusto del macabro e dello scabroso tanto caro alla cronaca nera e a una certa cinematografia popolare, ha il merito di porre domande universali su temi di grande respiro come la guerra o la colpevolezza, senza calare dall’alto risposte o facili soluzioni, ma stimolando anzi la riflessione individuale.