Faber in Sardegna & L’ultimo concerto di Fabrizio De Andrè, lungometraggio del regista cagliaritano Gianfranco Cabiddu, prodotto da Clipper Media, sarà distribuito nelle sale italiane da Microcinema per due soli giorni, il 27 e il 28 maggio.
L’opera, un film-documentario che pare animato da intenti agiografici più che da quello spirito laico che dovrebbe guidare la ricerca di un buon documentarista, più che armoniosamente coabitata da due anime differenti per natura e struttura, è brutalmente bipartita, contribuendo a rendere un risultato mal digeribile e artefatto.
Se per la prima metà viene narrato del particolare rapporto che il celebre cantautore genovese ebbe con l’Agnata in particolare e la Sardegna più in generale, la seconda è la ripresa nuda e cruda del suo ultimo concerto dal vivo, tenutosi al Teatro Brancaccio di Roma nell’ormai lontano febbraio 1998.
Se lo scopo di Cabiddu era quello di ritrarre il talento umano e musicale di De Andrè, non si può certo negare che sia riuscito nell’intento: tanto per quanto concerne l’amore del cantautore per la natura sarda, quanto per il rapporto di amicizia che riuscì a sviluppare con le genti del luogo, l’immagine che di De Andrè si può trarre è pressochè immacolata.
Merito del regista è se non altro quello di aver cercato di indagare la dimensione più intima e personale dell’artista, consentendo ai suoi ammiratori di conoscerne i lati umani e nascosti alle telecamere.
In questo senso vari conoscenti intervengono nel corso della narrazione – che si avvale di filmati d’epoca come di vecchie fotografie –, per testimoniare il loro rapporto col l’artista.
Da Piano a Maciocco – che si occuparono di trasformare in realtà il sogno architettonico che De Andrè custodiva per la cascina sarda che trasformò poi in un’azienda agricola –, fino alla donna di servizio, ciascuno a suo titolo dipinge un aspetto del carattere dell’artista o ne racconta qualche aneddoto.
Un ruolo preminente nell’economia dell’opera spetta sicuramente a Dori Ghezzi, moglie del cantautore, che riporta alla memoria anche il triste rapimento del 27 agosto 1979, durato ben quattro mesi.
Alternando interviste riprese del territorio poco originali, il documentario scorre lentamente, trascinandosi fino alla seconda ora, totalmente dedicata al filmato dell’ultimo concerto dell’artista.
L’opera nel suo complesso, disarmonica e slegata nel tessuto narrativo tanto da risultare un’accozzaglia di soluzioni stilistiche accomunate solo dalla colonna sonora – resta solo da indovinare quale – risulta un lento e malriuscito tentativo di far rivivere l’estro artistico di una delle voci e menti più interessanti del trascorso panorama cantautoriale.