Molto, forse troppo, si è detto di tre dei quattro film che hanno rappresentato l’Italia alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes, appena conclusasi con un’amara – ma forse non immeritata – sconfitta su ogni fronte.
Del ritorno a un passato mitico-fiabistico di Garrone, del diario intimo di Moretti, così come del racconto onirico-visionario di Sorrentino si è parlato fino alla nausea; mentre poco spazio è stato dedicato a Minervini e allo sguardo disincantato, privo di veli di Maya che il documentarista di nascita marchigiana ha proposto alla selezione ufficiale della Croisette, nella sezione Un Certain Regard.
Dopo i suoi primi tre film, la cosiddetta “Trilogia del Texas”, The Passage, Low Tide e Stop the Pounding Heart – proiettato a Cannes lo scorso anno –, Minervini si è spostato a est fino a raggiungere West Monroe, nel Louisiana del nord, dove ha realizzato The Other Side – questo il titolo originale –, un’opera documentaristica con qualche punta di fiction: i dialoghi sono in parte scritti dal regista stesso.
Lousiana è il prodotto di una ricerca etnologica e antropologica appena drammatizzata da qualche incursione nella finzione, come dimostra l’imbastitura e la struttura di alcune scene o situazioni costruite ad hoc dal regista.
Se nella prima metà lo sguardo di Minervini si sofferma sule vicende di Mark, un tossicodipendente che vive vendendo e producendo Crystal Meth – metanfetamina in cristalli –, una delle droghe di cui fa uso quotidiano con la fidanzata Lisa; nella seconda parte del documentario viene indagata un’altra realtà della zona, e la scena è quindi occupata da una comunità di paramilitari, una specie di militia privata chiusa e sovversiva.
Collante dialogico delle due narrazioni, è l’astio che i membri di entrambe nutrono per il presidente Barack Obama, da cui si sentono abbandonati e dimenticati. Proprio la rabbia, e un profondo quanto inappagato sentimento di rivalsa, sono in grado di tenere uniti i membri dei due gruppi.
Protagonista del film è l’altra metà del sogno americano, quella che non viene mai menzionata nei discorsi politici, una realtà scomoda e torbida, in cui il sessanta per cento delle persone è disoccupata e distrutta dall’anfetamina e dalla povertà, in cui donne in cinta si prostituiscono ballando lap-dance dopo essersi drogate, e nonni ubriachi sognano che un presidente donna si prenda finalmente cura di loro.
Minervini è riuscito a creare un prodotto che non è un racconto inventato, bensì la descrizione e la ripresa del quotidiano di queste povere genti.
Il taglio intimistico e partecipato del regista – che ha saputo rendere l’opera priva di qualsiasi velo pietistico o sguardo buonista -, rende Louisiana un ibrido, un prodotto a metà strada tra il freak-show e il saggio etnografico.
La telecamera incede lentamente sui personaggi, lasciando allo spettatore tutto il tempo necessario per esplorare corpi accartocciati e bucati, sorrisi beffardi e sguardi disillusi.
Le immagini sono così vere da sfiorare talvolta una crudezza mal digeribile e propongono una realtà che Minervini è stato in grado di riprendere solo facendosi da parte, ovvero rendendo la sua equipe parte integrante dell’ambiente rappresentato.
Un’operazione di mimetizzazione ,– dichiarata fin dalla prima scena del film, in cui si vedono alcuni paramilitari durante un’esercitazione nel bosco nell’atto di nascondersi e mimetizzarsi – , molto simile a quella di un reporter di guerra. In questo senso l’opera risente della formazione come fotoreporter di Minervini, formatosi con David Turnley, vincitore del premio Pulitzer per il fotogiornalismo per un lavoro a Gaza.
La vicinanza fra il regista e i soggetti che riprende è al tempo stesso il vanto e il tallone d’achille di Louisiana. Sorge più volte spontanea nello spettatore un’innocente interrogazione di carattere etico su come abbia potuto il regista riprendere scene di povertà e tragedia umana per inserirle poi in un film-documentario.
L’effetto straniante che ne deriva, è quello del voyeurista che osserva altri vivere – amare, soffrire a combattere ¬– preoccupandosi della buona riuscita del montaggio dell’opera. In questo senso le questioni sulla liceità morale di The Other Side, avvicinano l’opera alle annose questioni associate alla giustezza del reportage di guerra.