Considerando che si tratta di un esordio alla regia, Vulcano (IXCANUL) è un’opera praticamente perfetta. Non a caso il primo lavoro per il grande schermo di Jayro Bustamante è stato presentato alla XX edizione del festival Internazionale del cinema di Berlino, unico film guatemalteco che ad ora abbia mai concorso per il l’orso d’oro.
Maria (Maria Mercedes Coroy) è un’adolescente appartenente a un’antica sudamericana che, insieme al padre (Manuel Antun) e alla madre (Maria Telon), vive lungo le pendici di un vulcano lavorando in una piantagione di caffè.
In accordo coi desideri comuni a gran parte delle ragazze della sua età, Maria sogna un’altra vita, che nel suo caso coincide con la grande città, quel mondo al di là del vulcano di cui più volte ha sentito parlare, ma che sempre le è stato negato. Il piccolo paesino in cui vive è quanto di più lontano si possa immaginare dal sogno di modernità e fuga che segretamente coltiva; se le case sono prive di elettricità e acqua corrente, gli abitanti si rifiutano di parlare lo spagnolo. Mentre da un lato tale amore per la tradizione consente alla giovane di conoscere e praticare riti ancestrali e far sue antiche credenze tribali, dall’altro, questa chiusura alla modernità obbliga i figli e far proprie le ristrettezze dei padri.
Forte della promessa che sarebbe stata portata lontana da quel mondo contadino che tanto sente stretta, Maria seduce un giovane coltivatore (Marvin Coroy) e ne rimane incinta, compromettendo così il posto di lavoro dei genitori, che l’avevano da tempo promessa sposa a un abbiente possidente terriero (Justo Lorenzo).
La vicenda della giovane si declinerà in una climax di crescente sventura, con un tragico finale per taluni aspetti prevedibile fin dall’inizio del film.
Grazie a una successione di scelte registiche squisite, dai dialoghi a una fotografia che nella sua semplicità è capace di essere scolpita nella memoria dello spettatore, Bustamante è in grado di emanciparsi dagli stereotipi e dai clichè che troppe volte hanno caratterizzato opere impegnate in un ritratto etnografico di culture lontane e dimenticate, tanto amate da una certa critica esterofila.
Certo, alcune soluzioni fotografiche rendono onore a questa tradizione cinematografica, che specie nell’uso della macchina da presa si distingue per primi piani e campi lunghi. Ciononostante anche nell’utilizza della macchina a mano Bustamante riesce a creare sequenze di grande pathos e impatto emotivo.
Come è suggerito fin dal titolo, un ruolo estremamente importante è giocato nel tessuto narrativo dalla natura, personaggio protagonista della vicenda non solo in qualità di palcoscenico e scenario su cui l’azione si svolge, ma anche di silenzioso osservatore dell’ineluttabile succedersi di catastrofi, così come di presenza minacciosa e inscalfibile. A una presentazione per taluni aspetti mistica, che ricorda il senso della natura in Malick, la Natura è associata anche ad un erotismo primigenio – emblematica in questo senso la scena in cui la giovane protagonista si avvicina alla sessualità proprio nella foresta.
Bustmante è in grado di fornire un interessante ritratto etnografico-antropologico di una cultura pressochè sconosciuta senza cadere nell’anonimato che purtroppo caratterizza buona parte della tradizione documentaristica, riuscendo a fornire aneddoti divertenti e autoironici su una cultura che si rifiuta di aprirsi alla cosiddetta civiltà – come per esempio l’usanza di ubriacare i maiali di rum per favorire l’accoppiamento.
Il regista stesso ha trascorso l’infanzia sugli altipiani del Guatemala, in comunità che da sempre sono afflitte da un elevato tasso di discriminazione e hanno subito il violento impatto del traffico di minori nel corso del conflitto armato che ha flagellato il paese nella seconda metà dello scorso secolo. Come lo stesso Bustamante ha ricordato: « Il rapimento di bambini in Guatemala non è un segreto: con soli 14 milioni di abitanti, è diventato il principale paese esportatore di bambini nel mondo. L’ONU riferisce di 400 sequestri di minori ogni anno, portati a termine in condizioni di assoluta impunità». Se nel finale il regista tenta di portare alla luce anche questa aspetto, triste e oscuro, della vita lungo le radure del Guatemala, purtroppo la sua trattazione risulta un po’ troppo accellerata.
Oltre che per una recitazione perfetta, l’opera spicca per sensibilità e originalità, e, specie considerando che si tratta di un’opera prima, c’è da sperare che Bustamante abbia già in serbo qualcos’altro per noi.