A guardare “La La Land” non si direbbe che il regista dietro la macchina da presa abbia solo 32 anni, invece Damien Chazelle è giovanissimo e ha già dimostrato di essere un grande artista.
Lo ha fatto con “Whiplash” nel 2014, portandosi a casa tre Oscar (oltre ai vari altri premi) su 5 nomination ma con “La la land” ha voluto strafare, di nomination ne ha ottenute 14 e in attesa di sapere quanti Oscar prenderà, ha “collezionato” già 7 Golden Globes, 8 Critics’ Choice Awards, è nominato per 11 BAFTA, ha vinto il premio del pubblico a Toronto e la Coppa Volpi a Venezia (andata a Emma Stone come migliore attrice). Tutti adesso si chiedono cos’abbia questo film di tanto speciale; così tanta visibilità potrebbe rivelarsi rischiosa se le aspettative aumentano troppo. Di speciale ha che è semplice e non è così scontata, di questi tempi, la semplicità.
Un film in perfetto equilibrio
Una delle capacità di “La La Land” è quello di trascinare subito lo spettatore in un’atmosfera onirica, Damien Chazelle ha giocato con le citazioni e gli omaggi (basti pensare alla suddivisione in capitoli/stagioni) riuscendo a trovare la formula più equilibrata per non dare al suo musical un sapore troppo smielato. Un musical nel 2017? Non era passato di moda? Può darsi, o forse no. Potreste ricredervi, potreste farlo su tutte quelle cose che sembrano essere svanite, polverizzate dal tempo, e invece ancora ci sono e possono essere ancora belle.
Per quelli che “Che palle i musical” (come me) questo sarà una rivelazione, perché Chazelle è capace di rendere tutto naturale, omogeneo e in sintonia. Le musiche non risultano invadenti o troppo pompose, tra scarpette da tip-tap e voli in cieli stellati, non c’è mai nulla che sia o sembri di troppo. Solo i primi minuti del film lasciano l’impressione di essere davanti a un “Mamma Mia!” (che non dispiace, certo e il piano sequenza è notevole) per il resto Damien Chazelle è andato in direzione opposta ad altre opere come “Moulin Rouge!” che pure omaggia, ma a modo suo.
La storia di La La Land
La storia vede protagonisti Sebastian (Ryan Gosling) e Mia (Emma Stone), un’accoppiata di attori che sul grande schermo funziona sempre, l’alchimia che c’è tra i due è innegabile e contribuisce a trasportarvi nell’atmosfera del film, un po’ leggera e scanzonata come il suo titolo, a tratti amara e tormentata, com’è la vita di tutti noi. Sebastian insegue il suo sogno di diventare un musicista jazz, Mia vuole diventare un’attrice, la loro storia d’amore è un reciproco incoraggiarsi a non abbandonare i propri sogni, ma per riuscire a realizzarli qual è il prezzo da pagare? In una Los Angeles romantica, dai toni rosati che fanno subito effetto malinconico-nostalgico, risuonano le note di “City of Stars“; è la città dei sogni per antonomasia, in cui tutti sono pronti ad inseguirne uno, senza mai avere la certezza di riuscire ad arrivare fino in fondo. “La la land” è la terra del sogno americano, qui di un amore pulito, genuino, di quelli che fanno sognare. Rimane il sorriso anche dopo la fine del film, la storia però non è immune da battute d’arresto.
C’è qualcosa che è andato storto in “La la land“? Non esattamente. Chazelle ha compiuto un ottimo lavoro, l’unica piccola pecca che gli si può attribuire è la durata. Le due ore e sette minuti, garantito, filano lisce, ma la seconda parte del film forse rallenta inizialmente, è facile che possa accadere. La sceneggiatura cede un po’ per poi riprendersi, una piccola sbavatura in un’opera che finirà certamente per segnare una “nuova era” del musical. Sembra essere leggermente fuori posto la figura di John Legend, in un film che però riesce a mantenere per tutto il tempo al centro dell’attenzione solo i due protagonisti principali è quasi comprensibile che l’effetto sia questo: esistono solo Ryan Gosling ed Emma Stone e sono perfetti. Rispecchiano l’assoluta normalità, senza facili divismi; il bello di “La la land” è che non va a cercare storie sensazionali, lo sfarzo, nè l’impossibile: gioca su fattori semplici, riprende elementi che hanno già funzionato più e più volte e che forse avevamo dimenticato. È come se fosse andato al mercato delle pulci a rispolverare vecchi vinili, lo ha fatto con il musical e ci tiene a rimarcare l’importanza del jazz che, come il suddetto genere cinematografico, non deve essere lasciato morire e può, deve, rivivere, sotto forme sempre nuove, tutte le volte. Così è per l’amore, per i sogni, per le promesse. Panta rei, a volte però diventa importante saper guardare indietro, avere una visione completa del quadro, come il panorama di Los Angeles, che vista dall’alto sembra meno spietata.
Gli ultimi dieci minuti di questo film sono il capolavoro assoluto, un po’ struggenti, ma sempre con leggerezza. Chazelle non ama rigirare il coltello nella piaga, accenna all’idea, lascia immaginare, dà un assaggio della sensazione che vuole raccontare, poi inizia la musica, iniziano le coreografie, tutto si fa onirico, a metà tra un film d’animazione Disney della vecchia scuola e i film della Golden Age hollywoodiana. A quel punto, intontiti da tutto questo, se c’è qualche nota di dolore, passerà in secondo piano, rimarrà un briciolo di commozione, per il resto solo incanto.