Dici yuppie ed è subito effetto anni Ottanta: i grattacieli di New York, le quotazioni in borsa, la cocaina, Donald Trump. Che nessuno allora avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato il presidente degli Stati Uniti ma, si sa, la vita è imprevedibile.
Patrick Bateman (Christian Bale) appartiene alla categoria al 100%, lavora per una società finanziaria di Wall Street, ha 27 anni e ha già il mondo ai suoi piedi – almeno guardandolo dall’esterno. Muscoli d’acciaio, trattamenti di bellezza, abbronzatura impeccabile e un biglietto da visita che non fa sfigurare, Patrick ha proprio tutto ma si sente comunque insoddisfatto. Colpa di una società che rende tutti omologati: a vederlo seduto al bar insieme agli amici e colleghi, sempre intenti a sfoggiare l’abito più costoso o il biglietto da visita più bello, l’appartamento con il panorama più suggestivo, si fatica a distinguerlo. Infatti anche i colleghi si confondono tra di loro e Patrick Bateman non è mai Patrick, ma qualcun altro, qualcuno con una fidanzata simile alla sua, gli stessi abiti o il Rolex simile. Patrick vive di ossessioni ed è completamente folle, lui stesso sa benissimo che la sua maschera di normalità sta per scivolare via, ma trova la salvezza – se così volete chiamarla – nell’anonimato che trova camminando tra i grattacieli di Wall Street. Ad ossessionarlo sono i piccoli dettagli, come le prenotazioni nel ristorante più in voga o, ancora una volta, i maledetti biglietti da visita. Che a guardarli sembrano tutti uguali ma lui suda freddo al pensiero di non essere il migliore: per questo decide di far fuori Paul Allen (Jared Leto), rubandone in seguito l’identità. A differenza del libro da cui è tratto, il film di “American Psycho” ci va piano nel mostrare gli omicidi, si contiene con le scene splatter e si concentra principalmente sul volto di Christian Bale, perfetto psicopatico apparentemente normalissimo. Si può dire, infatti, che Mary Harron si è concentrata totalmente su di lui, lasciando il minimo spazio a tutti gli altri – necessario solo per la narrazione, quindi obbligato-, perdendo l’occasione di sfruttare attori di alto livello per aggiungere un tassello al film. Bale comunque riesce a definire alla perfezione i sentimenti contrastanti del suo personaggio, consapevole di essere disturbato ma incapace di fermarsi. Prostitute, vecchie amiche, barboni e animali rientrano tra le sue vittime, gli omicidi non sono mai efferati come dovrebbero, dissemina indizi ovunque. Non ci troviamo di fronte a un ante-Dexter, per parlarci chiaro. Nell’androne del palazzo extra-lusso Patrick porta via Paul in un sacco lasciando una scia di sangue che nessuno nota, uccide una donna lanciando una motosega giù per la tromba delle scale in un condominio in cui nessuno si scompone per le urla o i rumori al punto che sembra essere disabitato. Bateman (citazione dovuta a Norman Bates dello “Psycho” di Hitchcock) continua a rimanere anonimo pur facendo qualcosa di sconvolgente. Continua a interrompere la sua maniacale routine disseminando delitti per tutta la città, arrivando all’assurdo finale in cui perde totalmente il controllo. Decide, quindi, di confessare ma nessuno lo ascolta. “Ho ucciso 20 o forse 40 persone” dice al suo avvocato, che il giorno dopo ride pensando a uno scherzo. Viene il dubbio, in questo caso, che volesse tutelare il cliente, ma se si vuole seguire il filo logico del film, improntato sull’indifferenza generale di una società sempre più materialista e legata alle apparenze, sembra più probabile che l’uomo non abbia preso sul serio Patrick. L’appartamento di Paul Allen viene svuotato e ripulito in men che non si dica, l’avvocato giura perfino di averlo visto a Londra, Patrick Bateman non si capacita di quanto stia accadendo. Sorge qui un altro dubbio: è tutto frutto della sua immaginazione? Oppure, anche questa volta, è destinato a rimanere nell’anonimato anche se di mezzo ci sono decine di orribili delitti?
Sulle sue tracce dovrebbe esserci un detective (Willem Dafoe) che però fa una breve apparizione e non approfondisce nemmeno più di tanto la questione, seppure sia evidente che Patrick non stia dicendo tutta la verità. Il finale di “American Psycho” destabilizza, perché fa venire a galla solo innumerevoli punti interrogativi, sembra essere inconcludente ma il punto, forse, è proprio questo. Patrick Bateman potrà continuare a uccidere, anche in maniera eclatante (facendo esplodere le auto della polizia) e continuerà a non riscattarsi, alimentando ulteriormente il suo bisogno. Anche il finale, per quanto possa destare perplessità, lo abbandona così, nell’anonimato, a confondersi tra mille volti isterici ben vestiti, cocainomani festaioli che tradiscono le fidanzate (fa un’apparizione Reese Witherspoon, anche lei per niente valorizzata), il significato di tutto quanto è che un significato effettivo non c’è. A dirlo è lo stesso Bateman che, dopo aver confessato si aspetta una sorta di liberazione o una punizione che invece continua ad essere rimandata, non per sua scelta. “Ma anche dopo aver ammesso questo non c’è catarsi: la mia punizione continua a eludermi, e io non giungo a una più profonda conoscenza di me stesso. Nessuna nuova conoscenza si può estrarre dalle mie parole. Questa confessione non ha nessun significato”.