Dopo “Io sono l’amore” e “A bigger splash”, Luca Guadagnino torna al cinema per chiudere la sua trilogia con “Call me by your name”, che in Italia uscirà col titolo di “Chiamami col tuo nome”.
Siamo nel 1983, è estate e siamo in Padania, Elio è un giovane italo-americano di origini ebraiche che vive in un grande casale di campagna insieme ai genitori. Una famiglia borghese, che vive immersa nella natura e nell’arte. Due genitori open-minded e forse poco presenti nella vita di Elio, che sta attraversando quella fase piena di incertezze che è l’adolescenza. Prova un’attrazione per l’amica Marzia, ma a sconvolgere la sua esistenza è l’arrivo dell’americano Oliver, un ventiquattrenne attraente che collabora con il padre di Elio. Nella fresca estate padana, tra paesini assolati e desolati e fiumi, Elio andrà alla scoperta della propria sessualità e conoscerà le prime forti emozioni dell’innamoramento. Il film si basa sull’omonimo romanzo di André Aciman.
Luca Guadagnino ha ricostruito l’annata ’83 con una cura quasi morbosa, impeccabile. Come nei precedenti lavori, l’estetica gioca un ruolo fondamentale e per fortuna, va aggiunto, visto che la sceneggiatura traballa ed è sostenuta da dialoghi ridotti all’osso. I dialoghi, è vero, non sono sempre necessari ma buona parte del significato di questa dolce storia d’amore si perde in una serie di eventi che a volte sembrano essere tagliati bruscamente. Elio vive una situazione confusa, in cui i sentimenti si rimescolano e non sono più così facili da distinguere, ma Luca Guadagnino non permette allo spettatore di carpire a fondo questo suo disagio interiore. Eppure il giovane attore Timothée Chalamet è perfetto per la parte ed esprime bene il sentimento e lo smarrimento di Elio, che deve barcollare alla ricerca di una propria identità. Meno male che Chalamet c’è, perché fosse per il resto del cast, l’intero film sarebbe già naufragato.
L’impressione è che oltreoceano, come spesso accade, sia sia fatto molto rumore per nulla, o quasi, gridando al fenomeno e facendo spuntare candidature come funghi. Andiamoci cauti, “Chiamami col tuo nome” è una storia interessante, che tra l’altro affronta un tema delicato come la scoperta e l’esplorazione della sessualità e, in questo caso dell’omosessualità; racconta la “prima cotta” senza trasformare la vita di Elio e il personaggio stesso in una macchietta. Un po’ più “macchietta” è invece Armie Hammer, espressivo come un lampadario, che corrisponde a tutti gli stereotipi del bell’omaccione palestrato che potrebbero venirvi in mente pensando all’americano hollywoodiano. Oliver, al di là della sua fisicità, è un uomo che prova dei sentimenti, e anche forti, nei confronti di un giovane in preda alla confusione. Argomento non da poco, siete d’accordo? Sono mille le sfumature e tanta l’intensità della situazione, la bravura di Armie Hammer è stata quella di smantellarla tutta e non farla percepire. Se è percepita, è solo di riflesso, perché Chalamet i premi se li merita tutti. Ci sarebbe altro da dire, anche sulla presenza per nulla ingombrante di due genitori molto presi dalla loro vita sociale e dal loro intelletto ma tuttavia abbastanza aperti da essere in grado di capire. Forse è giusto così, è giusto che Elio abbia avuto tutto lo spazio necessario per cadere e rialzarsi, ascoltarsi e saper scegliere. Quel che si nota di “Chiamami col tuo nome” è l’elogio continuo della bellezza in ogni sua forma, il tocco è sempre elegante, ma l’eleganza non basta. Così come la lentezza, che non è necessariamente introspezione. Una cosa va detta, tuttavia, ed è che il cinema di Luca Guadagnino un pregio ce l’ha: l’impatto è classico, molto borghese, ma apporta sempre nuovi elementi, dei quali – a prescindere dal giudizio globale – il cinema italiano ha disperatamente bisogno.