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Il sacrificio del cervo sacro: la recensione del film di Yorgos Lanthimos

Già dal titolo, parlando de “Il sacrificio del cervo sacro” di Yorgos Lanthimos vengono in mente due cose: il sacrificio di Isacco e quello di Ifigenia e, più in generale, tutto quello che ruota attorno ad antichi rituali, mitologici e non.

Compiere un sacrificio è un atto primordiale, che rimanda ad antichi rituali religiosi. Dopo “The Lobster“, Yorgos Lanthimos sfrutta il potere dell’immagine di un animale- “è solo una metafora, capisci…” – per raccontare la sua storia. Ormai definitivamente approdato a Hollywood, il regista greco non dimentica le sue radici. La sua opera moderna è strutturata quasi come una vera e propria tragedia greca, inquietante sotto ogni aspetto. Inquadrature e musiche sono perfette per mantenere un continuo stato d’angoscia in sottofondo. Tutti i personaggi hanno una recitazione particolarmente artefatta ma chi conosce i film di Lanthimos sa che è una pura scelta stilistica. I protagonisti de “Il sacrificio del cervo sacro” sembrano sempre presi da altro, e anche nei momenti clou sono continuamente dissociati. Il primo è Martin, un incredibile Barry Keoghan, perfetto nella parte del ragazzino disagiato e affetto da disturbi mentali. Abbastanza da richiedere il sacrificio del cervo di cui sopra al pater familias, un barbuto Colin Farrell nei panni di un chirurgo di successo. Un uomo circondato da una famiglia apparentemente perfetta, anche se nel corso del film emergono delle tensioni che non vengono mai esplicitate del tutto. Una famiglia da spot del Mulino Bianco ma ognuno, dal più grande al più piccolo (innocente per definizione), conserva la propria perversione.

La sceneggiatura, scritta a quattro mani con Efthimis Filippou, propone dialoghi scarni, che spesso sfiorano il grottesco e sembrano essere casuali. Allo spettatore possono apparire dissociati l’uno dall’altro, tra dichiarazioni imbarazzanti e fuori luogo/contesto. Tornano le atmosfere asettiche e fredde ritratte da una fotografia impeccabile (Thimios Bakatakis) che richiama, tra gli altri, anche il cinema di Stanley Kubrick. L’omaggio al regista appare ancora più palese poiché Lanthimos ha scelto Nicole Kidman nel cast nei panni di Anna; alcune scene ricordano proprio le più celebri di “Eyes Wide Shut“. L’attrice australiana si riconferma essere perfetta per ruoli che richiedono la giusta dose di freddezza e mistero, per un film che in questo caso oscilla tra il thriller psicologico e l’horror.



Il dilemma della morte

I temi affrontati sono molteplici, a partire dal dilemma etico che riguarda il protagonista. Quanta responsabilità può avere un chirurgo sulla morte di un paziente? A detta di Colin Farrell/Steven Murphy, è sempre colpa dell’anestesista, per il collega è l’esatto opposto. Il dilemma che ruota attorno alla morte è anche un altro: nel momento in cui sei costretto a scegliere quale membro della tua famiglia “sacrificare” per salvare gli altri, come ti comporti? Quale criterio utilizzi? Pochi dettagli, seppure non disturbanti al livello di “Kynodontas“, lasciano cogliere la psiche di tutti i personaggi, anche quando si tratta di semplici gesti. Tratti disturbanti che riguardano non solo il rapporto tra marito e moglie, ma anche tra fratelli. Vendetta e violenza fanno da filo conduttore a tutta la storia, che inizia con un rapporto apparentemente gradevole, quello tra Martin e Steven. Nelle prime scene il rapporto tra i due non è chiaro ma si delinea nel corso del film, quando Martin diventa più morboso nei confronti di ogni membro della famiglia di Steven, oltre che nei suoi confronti, proponendogli perfino di avere rapporti con la madre (Alicia Silverstone). C’è poi l’assurdità dei pensieri che travolgono il protagonista e gli altri personaggi in momenti fortemente drammatici. Tutto diventa surreale, seguendo una scrittura ermetica e una scenografia altrettanto asciutta e pulita, che mette spesso in condizione di netta solitudine i protagonisti, anche nella scena. La borghesia perfetta qui traballa, non è più invincibile. La famiglia che Steven ha costruito potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro, mentre lui pensa al cinturino dell’orologio e figli (i bravissimi Raffey Cassidy e Sunny Suljic), paralizzati dalle gambe in giù, si contendono il lettore mp3.

Il sociopatico Martin applica una legge del taglione personalizzata, che rimane senza una risposta dal punto di vista etico. “Il sacrificio del cervo sacro” prende spesso pieghe inaspettate, tra dialoghi quasi robotici e un continuo rimando alla sessualità. C’è poi il tema della negazione, che travolge Steven in particolare. Il suo personaggio continua a muoversi come se nulla fosse di fronte a una minaccia più che concreta, in un mondo assurdo creato ad hoc da Lanthimos per smantellare – ancora una volta – l’idea di famiglia perfetta. Un climax che porta al finale che lascia sì spiazzati, ma non solo per la sua intensità. Pare che stavolta Yorgos Lanthimos abbia compiuto una scelta discutibile, lasciando qualche perplessità proprio sulla conclusione della storia ma forse anche questo fa parte del suo gioco. Come in precedenza, il regista non prende alcuna posizione, lascia libere le riflessioni. Con una certezza vecchia quanto il mondo: i peccati dei padri ricadono sui figli.


 

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