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Hold the dark: la recensione del film di Jeremy Saulnier

Secondo me le cose sono andate così: Netflix dice “Hey, Jeremy Saulnier, perché non fai un film per noi?” e lui “Sì, in effetti ci stavo proprio pensando, è il momento di girare un altro film. Guardate qua, stavo leggendo questo romanzo di William Giraldi (2014) e potrebbe essere molto interessante”.

Allora Netflix dice “Wow, sì, sembra una storia molto avvincente, tanto nessuno ha mai fatto film sull’isolamento in mezzo alla neve buttandoci dentro dei lupi e metafore e cose apparentemente esoteriche tutte scollegate tra loro”. Firmano l’accordo e poi esce “Hold the dark“, il cast include Jeffrey Wright, Alexander Skarsgård, Riley Keough e James Badge Dale.

SPOILER ALERT

La trama funziona pressapoco così: c’è un tizio, un naturalista in pensione, che viene contattato da una donna dopo la scomparsa di suo figlio. Allora il tizio, Russell Core, che scopriremo non essere in grado di farsi gli affaracci suoi, decide di partire per l’Alaska. “Già che ci sono” pensa “vado a trovare pure mia figlia che mi odia e che si è trasferita nel posto più sperduto del mondo pur di non avere contatti con me”. Arrivato in Alaska, Russell si ritrova questa donna completamente fuori di testa che fa una richiesta più che ragionevole: uccidi il lupo che ha ucciso mio figlio. “Mio marito non lo deve sapere, non lo deve sapere, non lo deve sapere. Se torna non ho più un figlio ma gli posso mostrare un lupo morto e siamo a posto”. Nel frattempo il marito è in guerra a sfogare i suoi istinti sparando su tutto quello che gli capita a tiro. Essendo uno psicopatico, viene ovviamente interpretato da Alexander Skarsgård. Russell decide di non porsi troppe domande sulla donna psicopatica che di notte appare ignuda e prova a farsi soffocare, la strana gente del villaggio dice che è posseduta dallo spirito di un lupo. C’è sempre la vecchietta inquietante che non si fa i fatti suoi e ti mette in guardia e tu pensi “ma questa non c’ha mai niente da fare?” e poi invece scopri che ti voleva aiutare ma è troppo tardi. Poi c’è tutto il villaggio omertoso perché tra le montagne sono tutti incestuosi bifolchi e non vogliono sapere nemmeno cosa c’è dietro l’angolo o dove sia San Diego. E i poliziotti sono tutti cattivi, invece i lupi sono buoni. Perché l’uomo, portato sempre a essere cattivo per condizione naturale, dà sempre la colpa all’animaletto fuffoloso che magari aveva solo fame e poi alla fine manco se l’era magnato quel bambino. Vabbè.



Alexander/Vernon lo psicopatico torna in Alaska e scopre che la moglie pazza (che non è una semplice moglie, sennò la facciamo troppo semplice) è sparita nel nulla dopo aver ucciso il figlio. Russell decide di rimanere e di continuare a intromettersi in questioni che non lo riguardano, rischiando la vita ogni quindici minuti. Scopriamo che il militare è pazzo quanto la moglie o anche di più e che prova il continuo bisogno di uccidere gente a caso. E siccome è uno che gli amici se li sceglie bene, esce in coppia con uno che colora l’Alaska di rosso uccidendo tutti i poliziotti che si trova davanti, per un tempo inspiegabilmente lungo, interminabile, in cui nemmeno per sbaglio uno riesce a centrarlo in fronte. Tutto il film è disseminato di indizi, aka frasi senza senso che dovrebbero risuonare un po’ mistiche, un po’ esoteriche ma che funzionano più come un “guarda, tanto alla fine non ci capirai niente quindi ti stiamo dando una mano”. Dopo 2 minuti hai già capito che fine ha fatto il bambino ma questa è un’altra storia. E non è che alla fine non si capisca niente perché il film è complesso, pieno di sottotrame e riferimenti, è che semplicemente è stato scritto sotto sostanze psicotrope tagliate male. Perché non solo non se ne coglie il senso ma la motivazione del 99% delle azioni che i personaggi compiono, abbinata a una velocissima capacità di far passare cose e personaggi in secondo piano con dialoghi degni di “The Lady”. Non fai nemmeno in tempo ad affezionarti e ad empatizzare che già sono al camposanto. Oh, però c’è un super cast. Vediamo che Russell l’impiccione fa sterminare mezzo Alaska e riesce sempre a farla franca, manco i lupi se lo filano e la figlia lo va a salutare giusto perché è lì lì per schiattare. Perfino Alexander Skarsgård lo psicopatico lo risparmia: indossa una maschera da lupo e continua la sua caccia alla moglie pazzetta per poi decidere di risparmiare anche lei, di prendere la bara del figlio e trainarla come uno slittino in mezzo al nulla. La versione da reparto psichiatrico della coppia felice che sparisce camminando verso il tramonto, insomma. Dice che Jeremy Saulnier ha lasciato molte cose in sospeso volutamente. Per esempio il finale, che ti lascia dentro una perplessità logorante. Più che intenzionale, sembra che di volta in volta il regista si rendesse conto del nonsenso di tutta l’opera, poi rimontata alla bell’e meglio con quello che c’era a disposizione. Quelli che sanno scrivere davvero le recensioni dicono che sia un film molto bello, che va capito, eccetera eccetera, però non è che si può usare sempre la scusa delle metafore quando non si capisce il film. L’oscurità che ti cattura e la neve e i lupi e il folklore e il fuoco e il rapporto con i figli, in mezzo a tutto questo calderone un po’ di sceneggiatura scritta con criterio avrebbe aiutato.

IL NOSTRO PARERE IN BREVE

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