“Hill House” è disponibile su Netflix dallo scorso 12 ottobre e se state cercando qualcosa di valido da guardare in vista di Halloween, è la serie che fa per voi.
Non sono un amante del genere ma “Hill House” mi ha tenuta incollata allo schermo per tutta la durata dei dieci episodi, con tutti gli incubi che ne sono conseguiti. La serie, diretta da Mike Flanagan, è basata sull’apprezzato “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson, già riadattato in altre occasioni. Flanagan lo prende come punto di partenza per creare una storia american gothic che ruota attorno a una famiglia composta da 7 persone e i fantasmi che li tormentano. “Fantasmi, ci puoi morire se li lasci fare”, scriveva Baricco in “Novecento”, e la storia vale soprattutto per alcuni dei protagonisti.
Il cast è doppio, perché “Hill House” si sviluppa lungo due linee temporali, il passato e il presente, continuamente rimescolate tra di loro. Lo spettatore deve quindi tenere il filo di tutti gli eventi e una concezione temporale simile ben si sposa con la narrazione, che riprende il concetto più volte. Troviamo Henry Thomas, il caro Elliott di “E.T.” ormai cresciuto, nei panni di Hugh Crain. L’uomo, insieme alla moglie Olivia (Carla Gugino, in una delle sue migliori interpretazioni) e ai figli si trasferisce temporaneamente a Hill House. La casa, imponente e gotica, è inquietante già solo per il suo aspetto, ma nasconde in sé molti segreti. Il poco tempo vissuto nella casa influenza le vite di tutti i protagonisti, che si porteranno dietro le ferite mai rimarginate della loro ultima notte nella casa, quella in cui hanno perso la loro madre. Steven, Shirley, Theodora, Eleanor e Luke hanno metabolizzato gli eventi in maniera diversa: Steven, in particolare, attribuisce tutto l’accaduto ai disturbi mentali che tutta la famiglia si porterebbe dietro. Grazie a quella stessa storia, che lo vede scettico, riesce a diventare uno scrittore di successo. In qualche modo la presenza della casa rimane costante, anche a chilometri di distanza e molti anni dopo i fatti, continuando a influire negativamente sulle vite di ciascun membro della famiglia.
“Hill House” è sicuramente uno dei migliori prodotti proposti da Netflix in questi ultimi mesi. Consiglio la serie horror a tutti, anche a chi come me non ama il genere, perché è perfettamente godibile… e porta la tensione alle stelle. Partendo dalle singole storie dei fratelli Crane, la narrazione arriva al loro presente, al loro modo di affrontare i demoni del passato – tra dipendenze, barriere e poca fiducia – spingendo la curiosità dello spettatore all’apice: cosa è successo quell’ultima notte a Hill House? Sembra sempre di arrivarci vicino ma non troppo, per poi trovare un finale ben costruito in cui finalmente tutto quello che abbiamo visto prende forma. Molte domande rimangono senza risposta (ed è giusto che sia così) ma molto viene chiarito, arrivati a un punto in cui Flanagan ha rischiato di diventare troppo sbrigativo e perdersi dei pezzi per strada – per fortuna non è successo.
Il merito è anche del cast, in cui i più piccoli si sono rivelati davvero perfetti per le loro parti. Nonostante alcuni momenti a metà tra “This is us” e “Grey’s Anatomy”, Flanagan si è mosso tra l’horror e il dramma familiare con grande disinvoltura. Il sesto episodio, “Due temporali” (Two storms) è quello in cui la serie raggiunge il suo apice in tutti i sensi, che racchiude alcune delle scene migliori dell’intera stagione. Dieci episodi possono apparire tanti, qualche volta i dialoghi risultano ridondanti, i concetti tornano e si ripetono, senza che però questo sia disturbante per chi guarda. Ad essere disturbante è tutt’altro, cioè tutto ciò che deve essere funzionale alla buona riuscita di una serie horror. Sul finale molte ripetizioni, infatti, troveranno finalmente una collocazione. Arrivati al decimo episodio, ormai affezionati ai Crane e terrorizzati dal loro percorso, non possiamo fare a meno di notare di come “Hill House” superi la semplice messa in scena per il gusto di fare horror e porti a riflettere anche sui fantasmi che tutti noi ci portiamo dietro, sperando che prima o poi qualcuno ci creda e ci aiuti ad affrontarli.
⭐⭐⭐⭐