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La Disney censura i grandi classici per bloccare gli stereotipi negativi?

Da tempo ci si interroga molto su quanto faccia bene l’eccesso di politicamente corretto, soprattutto in questo momento storico. Aziende e grandi colossi devono fare molta attenzione, perché il minimo passo falso può scatenare grandi polemiche e, tramite social, può succedere davvero di tutto, con danni ingenti per i diretti interessati. Di recente si è espresso sull’argomento anche Rowan Atkinson, il celebre Mr. Bean (personaggio a cui ha deciso di dire addio) ha parlato della ridotta libertà di espressione di artisti e comici: “Sembra che si possa essere solo con o contro. Se sei contro allora meriti di essere “cancellato”, zittito”. Ha sottolineato lo stesso aspetto Ricky Gervais, parlando in particolare di “The Office (una serie nata nel 2001 nella versione britannica, poi rifatta nel 2003 nella versione USA) che oggi risulterebbe forse troppo “politicamente scorretta”, per quanto l’ironia e la satira siano più che evidenti. Ma abbiamo visto che la percezione del pubblico è completamente cambiata, perfino quando si va a toccare una serie cult come “Friends”. Anche la più piccola battuta rischia di offendere una categoria o quell’altra e, con l’amplificazione dei social, è molto più facile che l’indignazione venga a galla. Se da una parte questo aiuta a sensibilizzare su certe tematiche e rende il pubblico più critico, dall’altra si rischia, come sempre, di estremizzare.

Abbiamo visto, sempre di recente, il caso “The Witches che ha portato Anne Hathaway a scusarsi per l’aspetto fisico della strega che interpretava nel film. Molte persone affette da ectrodattilia hanno criticato la Warner Bros. per questa rappresentazione: “ritrarre o rappresentare criminali con difetti fisici può perpetuare stereotipi secondo i quali le disabilità sono anormali o spaventose”. Se da un lato è più che lecito non voler demonizzare un difetto fisico e ancor meno una disabilità, dall’altro c’è sempre il rischio che anche l’azione meno intenzionale abbia un effetto boomerang. Negli anni abbiamo visto moltissimi esempi di vario tipo, come la bufera che nel 2018 travolse Scarlett Johansson per aver accettato un ruolo – subito abbandonato – in cui avrebbe interpretato un personaggio trans. Per interpretare un personaggio, un attore o un’attrice deve corrispondere a quelle caratteristiche? Fino a poco tempo fa sembrava di no, poiché la parte più affascinante del lavoro sta proprio nel calarsi in un’altra parte. Adesso non è proprio così.


Omar Sy in Lupin | Netflix

È qui che entra in ballo un’altra tematica scottante, che è quella del razzismo. Sarebbe ipocrita negare il privilegio di attori e attrici bianche rispetto ai colleghi di colore e la sensibilizzazione in quest’ottica (estesa a qualsiasi tipo di etnia, sia chiaro) fa più che bene. Il problema, di cui si discute molto in questi giorni, è che si rischia sempre di sfociare nel blackwashing, ovvero la scelta di interpreti di colore “forzata”, perché viene fatta per ingraziarsi la comunità ed evitare polemiche, rischiando di danneggiare una produzione. Si rischia, tuttavia, anche l’effetto contrario. Netflix è una piattaforma che in molti casi offre prodotti in cui il politicamente corretto è più forzato che mai, anche se ha contribuito non poco a normalizzare alcuni temi che fino a poco tempo fa facevano storcere il naso a molti, a partire dall’omosessualità. La piattaforma è stata accusata più volte di fare blackwashing ma allo stesso tempo, quando l’informazione è scarsa, si rischia di fare accuse a vuoto. È successo nei giorni scorsi con la stampa italiana, con il Corriere che ha accusato Netflix di fare blackwashing per aver scelto un attore di colore per interpretare Lupin nell’omonima serie. Tutto sbagliato, poiché Omar Sy non interpreta Lupin ma il suo personaggio si ispira a quella figura. Che è un po’ come accusare Gabriele Mainetti di aver stravolto completamente “Jeeg Robot d’acciaio”, ma con l’aggiunta dell’accusa razzista. Nel caso in cui servisse una lezione su come trattare determinate tematiche, risultando al contempo sensibili e inclusivi anche quando si toccano gli argomenti più delicati, c’è solo una cosa da fare: guardare “This is us”.

Arriviamo, quindi, alla discussa decisione di Disney+ di cui si parla in questi giorni. I film Disney, soprattutto i grandi classici, ciclicamente finiscono al centro della polemica perché contengono “stereotipi dannosi”. Visti con gli occhi di una persona – ancor di più i bambini – esposta diversamente a questo tipo di tematiche e con una diversa consapevolezza, alcune cose potrebbero risultare parecchio strane. Anche sul revisionismo storico di Disney (ma non solo, ricordiamo anche il caso “Via col vento”) si potrebbe parlare a lungo: la censura è giusta oppure no? Di fatto, la censura non c’è mai stata, in nessuno dei due casi. Dopo svariate discussioni in materia, il pubblico si è diviso in due fazioni: c’è chi pensa che ogni cosa vada cancellata – e qui si cade nella cancel culture – e chi invece sceglie una linea più moderata. Se dovessimo guardare a tutte le opere che, seguendo la mentalità della loro epoca, oggi risultano più politicamente scorrette che mai, ci rimarrebbe poco in mano da studiare ed esaminare. Ed è anche grazie a quelle opere – che senza dubbio contengono elementi discutibili, visti adesso – che oggi possiamo ampliare il nostro senso critico, fare analisi e comparazioni e decidere cosa sia giusto o sbagliato, corretto oppure no. Disney+ ha optato per la linea moderata, se vogliamo, bloccando la visione dei classici più contestati ai bambini al di sotto dei 7 anni. “Peter Pan”, “Dumbo” e “Gli Aristogatti” sono ancora disponibili nella sezione per adulti, con tanto di disclaimer:

Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazione e culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto, vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo.

Se ne parla molto in questi giorni, ma il disclaimer è presente già da diversi mesi. In più, la spiegazione delle motivazioni e un elenco degli stereotipi negativi di cui sopra, vengono approfonditi nell’apposita pagina, storiesmatter.com. Un dialogo aperto, per quanto per alcuni suoni ipocrita, è sempre meglio di una censura (peraltro mai esistita). O no?


Dumbo

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