Ryan Murphy e Brad Falchuck sembrano essere finiti (ormai da tempo) in circolo vizioso in cui continuano ad autocitarsi. E citandosi, non fanno altro che citare tutte le opere e le storie che, nel corso di questi anni, hanno utilizzato per le varie stagioni di “American Horror Story”. La serie antologica ha regalato delle ottime annate per poi arrotolarsi su se stessa per gli stessi identici motivi: la banalità e la ridondanza dei personaggi, delle storie e delle citazioni stesse. Con “American Horror Stories” il duo sembrava intenzionato a smuovere un po’ le acque, utilizzando la serie come base di partenza per creare delle storie completamente nuove. Non è andata esattamente così.
Rubber (wo)Man
I primi tre episodi di “American Horror Stories” (disponibili in Italia su Star, all’interno di Disney+) sono di una banalità assoluta ed anche particolarmente forzati. Ogni singolo passaggio mostra chiaramente l’assenza di idee e la volontà di “spremere” un prodotto che ha già fatto il suo tempo diversi anni fa. I primi due episodi, in realtà, costituiscono un episodio a sé, diviso in due parti, in cui si fa ritorno a “Murder House”. La casa infestata della prima stagione ha riscosso molto successo allora, quando “American Horror Story” rappresentava qualcosa di diverso nel panorama delle serie tv; l’abbiamo vista tornare per più stagioni, affollandosi sempre di più di personaggi nemmeno troppo rilevanti, diventando un calderone di leggende metropolitane e storie del crimine di cui forse i due creatori hanno un po’ abusato. La prova definitiva è rappresentata proprio da “Rubber(wo)Man” (episodio 1 e 2): una coppia gay si trasferisce nella casa insieme alla figlia adottiva nel tentativo di trasformarla in una vera e propria attrazione per via del suo oscuro passato. Ma la casa, tanto per cambiare, prenderà il sopravvento sui suoi abitanti attraverso volti vecchi e nuovi, ma seguendo sempre le stesse dinamiche nonostante lo sforzo di attualizzare il tutto. Sierra McCormick veste i panni di Scarlett (Violet, Scarlett…), un’adolescente dalle particolari preferenze sessuali che si imbatte nell’ormai nota tuta di lattice mentre gira per la casa. Sul resto evitiamo gli spoiler, limitandoci a dire che è tutto assolutamente prevedibile e che anche se non sono tornati alcuni dei volti principali della storia originaria, si sente fortissimo il gusto di minestra ri-ri-ri-riscaldata.
Drive In
Anche con “Drive In”, il terzo episodio, Ryan Murphy e Brad Falchuck non mancano di scavare nella cultura pop horror, ancora una volta senza impegnarsi troppo. Le citazioni rimangono le stesse e la trama è ancora più banale, degna di un teen horror di serie B da dimenticare prima di subito. Rhenzy Feliz e Madison Bailey interpretano Chad e Kelley, due adolescenti alle prese col delicato tema della perdita della verginità. Dopo l’ennesima discussione con Kelley e un confronto con gli amici, Chad decide di sperimentare portando la ragazza a vedere un film horror per vedere se possa avere qualche effetto particolare. Il film horror in questione è il leggendario “Rabbit Rabbit” di cui pare esistere una sola copia. La leggenda urbana racconta di un’unica proiezione avvenuta a metà degli anni Ottanta che ha fatto impazzire il pubblico, portando gli spettatori ad uccidersi a vicenda. I ragazzi pensano si tratti solo di una leggenda ma scopriranno la verità solo la sera dell’attesa proiezione. Oltre a una sceneggiatura pessima sotto ogni aspetto, che si dilunga dove non è necessario e corre veloce dove necessita di più attenzione, anche in “Drive in” non si può fare a meno di notare la ripetitività degli argomenti. Larry Bitterman (John Carrol Lynch), dall’aspetto kubrickiano, non è poi tanto diverso da un personaggio che Lynch ha già interpretato in passato, ovvero il clown Twisty di “Freak Show”.
Restano ancora cinque episodi da scoprire ma, viste le premesse ed anche il livello attoriale medio, non sembra di potersi aspettare grandi colpi di scena. L’esperimento “American Horror Stories” non sembra essere andato a buon fine e, contrariamente a quanto accadeva nella serie originaria, qui oltre ai brividi vengono meno anche tutti gli spunti di riflessione sulla società che invece si potevano raccontare nell’arco di più episodi.