Siamo in Giappone nel 2038 e un’epidemia di “influenza canina” colpisce il Paese, costringendo tutti i padroni di cani a separarsi da loro per evitare che esploda una pandemia. Kobayashi (Kunichi Nomura), sindaco della città di Megasaki, decide di bandire tutti i cani mandandoli in quarantena sull’isola dei rifiuti, abbandonandoli al loro destino. Intanto il professor Watanabe (Akira Itō), a capo del Partito della Scienza, sembra essere vicino ad una soluzione, ma non viene ascoltato. Inizia una vera e propria campagna mediatica di terrore e il primo cane “scaricato” sull’isola in modo esemplare è il povero Spots, il cane del giovane Atari Kobayashi (Koyu Rankin), nipote adottivo del sindaco, rimasto orfano, che decide di partire da solo alla ricerca del suo cagnolino.
Candidato all’Oscar per il miglior film d’animazione, “L’isola dei cani” è un racconto distopico che, soprattutto se visto a seguito della pandemia del 2020, è inquietantemente realistico. Attraverso il film Wes Anderson racconta i rapporti di potere e la manipolazione delle informazioni, ma soprattutto la storia di un forte e indissolubile legame tra un bambino di 12 anni e il suo cagnolino che racchiude in sé numerosi messaggi. Da contorno ci sono le storie degli altri cani presenti sull’isola dei rifiuti, a partire dal burbero randagio Chief, doppiato da Bryan Cranston.
“L’isola dei cani” ha segnato il ritorno di Wes Anderson all’animazione e l’incontro con il mondo giapponese, che aiuta il regista a rimarcare ulteriormente il perfezionismo che l’ha reso celebre. Nonostante questo, va precisato che il Giappone fa solo da sfondo alla vicenda, che si sarebbe potuta svolgere in qualsiasi altro posto, poiché non è un film che ne racconta le usanze e le tradizioni. Le atmosfere de “L’isola dei cani” sono cupe, a tratti violente – non è esattamente rivolto al pubblico dei più piccoli – e ansiogene, il Giappone è un elemento funzionale per una serie di motivi, sia estetici che storici. La cura nei dettagli, come sempre, è maniacale: l’estetica nipponica consente ad Anderson di avere ordine e linearità e la peculiarità del Paese gli dà la possibilità, proprio come piace a lui, di rimanere sospeso tra la modernità più avanzata e il richiamo prepotente del passato, tra templi e metropoli, tecnologia e rituali. Il Giappone, quindi, è una fonte d’ispirazione evidente e sotto molteplici punti di vista ma la storia è universalmente riconoscibile.
In mezzo a cumuli di rifiuti (però perfettamente ordinati) e le atmosfere buie e poco rassicuranti, perfettamente in sintonia con le musiche ansiogene di Alexandre Desplat, il senso di abbandono dei cani sull’isola e quello di oppressione causato dalle iniziative sempre più repressive di Kobayashi, l’unico spiraglio di luce è la determinazione del piccolo Atari Kobayashi. Una sorta di moderno piccolo principe in versione cyber-punk, che arriva sull’isola tutto accartocciato, e che riesce ad esprimere emozioni e sentimenti anche senza proferire parola e si fa capire anche in un luogo in cui nessuno sembra capire ciò che dice e che chiede. Wes Anderson riesce ad animare in modo impeccabile ogni singolo personaggio, sottolineando dettagli quasi impercettibili, le espressioni del volto, rendendoli estremamente umani; inoltre, qui sono gli animali a parlare in inglese, le persone parlano (molto) poco e in giapponese (non sottotitolato) – e spingendo lo spettatore ad empatizzare con loro.
In una continua ricerca della giusta armonia tra istinto e ragione, sono i sentimenti ad avere la meglio, anche sui cuori più duri. Ne “L’isola dei cani” tutto si gioca sul senso di appartenenza, quello provato da chi pensava di averlo smarrito e chi non l’ha mai conosciuto e vorrebbe scoprirlo. Ma anche quello visto sotto una prospettiva ben più ampia, quella di una collettività che rischia di essere manipolata dall’avidità di chi detiene il potere e, in mezzo alla confusione, rischia di perdersi ogni legame possibile. Il potere, tuttavia, si può ribaltare: talvolta il prezzo da pagare è molto alto e occorrono un’unione compatta e moltissima determinazione per riuscire a resistere, anche nei momenti più scoraggianti, sempre in virtù di quel senso di appartenenza che ci fa sentire più vicini, abbassando ogni barriera, e in grado di comunicare anche senza dover necessariamente parlare la stessa lingua – concreta o metaforica che sia.