Siamo nella piana di Gioia Tauro, un posto difficile e pieno di contraddizioni, e in mezzo a tutto questo c’è Pio Amato, che vive all’interno della comunità rom stabilitasi ormai da anni nel quartiere della Ciambra.
Pio (Pio Amato) ha 14 anni, non sa leggere, fuma e beve birra, segue il fratello Cosimo e da lui impara come portare avanti “l’attività” di famiglia, tra un furto d’auto e l’altro. L’unico rapporto che Pio ha al di fuori della Ciambra, là dove ci sono gli “italiani”, è quello con Ayiya (Koudous Seihon), che vive nella famigerata tendopoli di Rosarno. Ayiya cerca di insegnargli un altro punto di vista ma Pio si trova in quella fase della vita in cui per capire le cose bisogna toccarle con mano e sembra impossibile riuscire a sbrogliare la matassa per distinguere il bene dal male. Scopre, a sue spese, che il bene non è sempre la risposta, Jonas Carpignano racconta la storia di un ragazzino inserito in un contesto difficile, costretto a crescere più in fretta del dovuto. Lo fa con una poetica incredibile, rendendo il racconto molto intenso ma soprattutto avvalendosi di personaggi che in vita loro non hanno mai recitato.
C’è la famiglia Amato, ci sono gli immigrati della comunità di Rosarno (una realtà già mostrata in “Mediterranea“), c’è Pio, che è al centro di tutto e che offre un’interpretazione straordinaria, quasi come fosse abituato a vivere da sempre su un set cinematografico. E in questo c’è da sottolineare la bravura di Carpignano, il regista è riuscito a carpire l’essenza del ragazzo, della famiglia, raccontando il loro stile di vita senza mai puntare il dito contro nessuno. Quello che emerge, semmai, è che spesso gli eventi prendono il sopravvento e nel caos di scelte che si compiono – volenti o nolenti – nella vita, diventa complicato riuscire a capire chi sia il buono e chi il cattivo. Spesso i buoni sono portati a compiere azioni che non vorrebbero mai compiere, spesso i cattivi si nascondono sotto le maschere da buoni. Non si può capire, non è tutto semplice, non si può fare di tutta l’erba un fascio, non si può ragionare solo tramite etichette.
Nello spaccato che racconta Jonas Carpignano, inoltre, vediamo una comunità rom dalla forte impostazione patriarcale, bambini che a pochi anni di vita già fumano e bevono, non hanno alcuna istruzione; le donne nascono e vivono nella totale rassegnazione, assecondano, aspettano. In questo vortice Pio deve fare i conti con la sua identità che si sta sviluppando. E deve prendere in mano le redini della situazione prima del previsto. Il fratello Cosimo è la sua figura di riferimento, ma non c’è più ed è Pio a doversi sobbarcare le responsabilità per portare avanti la famiglia. Il prezzo da pagare è alto e di mezzo ci va la sua amicizia con Ayiya. Un rapporto pulito e autentico, che necessariamente viene macchiato da scelte più grandi, che non dipendono da Pio. Come ha già precisato più volte lo stesso Carpignano, con “A Ciambra” non vuole sollevare questioni sociologiche o marciare sulle notizie che ogni giorno fomentano una fazione o quell’altra, si limita a raccontare una storia. E lo fa tramite una fotografia fredda ma trasportando lo spettatore dentro la vicenda e catturandone fin da subito l’attenzione, al punto che a tratti sembra reinventare una nuova forma neorealismo, arrivando a raggiungere una poetica che in alcune scene strizza l’occhio al cinema felliniano: basti pensare alla figura del nonno che si vede fin dalle prime immagini, o le scene in cui c’è il cavallo, solo nel buio, mentre Pio è messo spalle al muro e deve prendere le sue decisioni. Il sottile e incomprensibile confine tra bene e male è talmente chiaro a quel punto allo spettatore che, esattamente alla pari del regista, non riesce a guardare giudicando ciò che sta vedendo, ma ne prende semplicemente atto. E trae un nuovo spunto di riflessione, riuscendo a guardare alle cose con un punto di vita totalmente rinnovato.