Alice in Chains. E subito la mente va alla mia giovinezza, alla voce unica di Layne Staley, alla musica che nasceva negli anni ’90, al grunge ed a tante altre cose. Ed oggi, a distanza di anni da “Black Gives Way to Blue“, ascolto il nuovo disco, “The devil put dinosaurs here“.
Staley è stato sostituito da William DuVall, cantante dei Comes with the Fall, il basso di Mike Starr è da anni saldamente nelle mani di Mike Inez ma la batteria di Sean Kinney e soprattutto la chitarra e la voce di Jerry Cantrell sono saldamente al loro posto. E nel disco si sente in pieno.
Gli Alice in Chains, dopo aver furoreggiato negli anni ’90 creando capolavori come “Rooster“, “Them Bones“, “Would?” e “Down in a hole” e aver ispirato grazie al loro grunge/alternative metal fior di gruppi come Deftones e Queens of the Stone Age (giusto per citarne due) e dopo le note vicissitudini personali del cantante Layne Staley e del bassista Mike Starr, terminate entrambe nel modo peggiore possibile (ovvero con la loro morte per abuso di sostanze stupefacenti), erano usciti dal loro buio ed avevano cominciato a farsi rivedere in giro, partecipando a vari eventi di beneficenza e trovando in William DuVall il sostituto di Staley per tornare nel 2009 con “Black gives way to blue”. E dopo altri 4 anni tornano con un nuovo lavoro.
“The devil put dinosaurs here” è un disco da 12 tracce per ben 67 minuti di musica ed è nato con un intento molto semplice, ovvero quello di fare musica, come Cantrell ha dichiarato:
Non credo vi sorprenderà quello che sentirete. Siamo noi. E’ comunque un disco unico, il nuovo capitolo della storia degli Alice In Chains; uno bello grosso.
Dopo l’ascolto, posso confermare appieno le parole di Cantrell: sono loro. Sono gli Alice in Chains. Sono tornati. E sono tornati a modo loro, senza eredità di cui disfarsi e senza nessun rimpianto del passato, ma anzi con la stessa immutata forza espressiva e con la stessa musica, eccellente marchio di fabbrica. Basta ascoltare il primo pezzo, “Hollow“, per capire che non è cambiato direi nulla da quell maledetto decennio dove gli AIC esplosero.
In questo disco si sente sempre più forte l’impronta di Cantrell, sia sul songwriting che nella musica vera e propria: le chitarre distorte e acide vanno che è una meraviglia come in “Pretty done” e la sua voce, impastata con quella di DuVall, non renderà come quando c’era Staley ma merita e non da molto spazio ai rimpianti.
Un disco bello pieno, quindi. Un disco bello tosto. Un disco carico di alternative metal duro e rabbioso, come l’intro di basso di “Stone“, un pezzo che trasuda cattiveria da tutti i pori ma che sa mostrare anche lati meno duri e più intimamente rock come con “Voices” e “Scalpel“, un disco che mostra anche un lato più intimista con “Hung on a hook“, per me la canzone più bella dell’intero lavoro.
Quando si arriva alla titletrack, “The devil put dinosaurs here“, si arriva all’essenza dell’album: sette minuti per una canzone che è un viaggio in una carrozza di lusso nella musica degli Alice in Chains, un viaggio per capire chi sono e cosa sono stati. Viaggio che continua fermandosi alle stazioni di “Breath on a window” e “Phantom limb” e che si arresta al capolinea con “Choke“, un capolinea malinconico, una fine come solo gli Alice in Chains sanno fare.
Posso dire che “The devil put dinosaur here” è un disco fantastico, da riascoltare per gustarsi le sfumature che riempiono le sue canzoni, un album da avere nella propria discografia. Un disco che merita appieno di trovarsi affianco a “Dirt” e “Jar of flies“. Un disco che strapperà, da lassù, un sorriso anche a Staley.