Anche se non dovesse conquistare l’Oscar come miglior film, “American Sniper” vincerà comunque un premio: quello di film più chiacchierato della storia del cinema. Che poi questi chiacchiericci raccolgano pareri maggiormente positivi o negativi è tutto un altro discorso. Personalmente, comunque, questa recensione presenterà perlopiù i secondi. La critica, in questo caso, è dettata da molteplici fattori, in primis quello relativo alla classica “delusione delle aspettative”.
Avevamo presentato con termini entusiastici “American Sniper” dal momento dell’uscita del trailer italiano. Sembrava tutto perfetto: l’attore (Bradley Cooper), la storia controversa (del cecchino Chris Kyle), le immagini di assoluta tensione e soprattutto il regista, l’immenso Clint Eastwood. Le aspettative si basavano soprattutto sulla sua regia. I pensieri correvano ai precedenti capolavori “Flags of our Fathers” e “Lettere da Iwo Jima“, in cui la guerra veniva raccontata con uno straordinario senso d’umanità, senza schierarsi da una o dall’altra parte.
Proprio per questo la tagline del film “il cecchino più letale della storia americana” non destava preoccupazioni in termini di inopportuno patriottismo americano. Perché quando c’è Clint, la guerra è vista in maniera totalmente diversa. La sua regia, in pratica, è da sempre garanzia di successo. Invece…
Invece Clint Eastwood ha fatto da subito una premessa a inizio film, una frase che lo stesso padre di Chris Kyle gli aveva riferito: il mondo si divide in lupi, pecore e cani pastore. Detto fatto, non vale nemmeno la pena aggiungere niente: è inevitabile che gli americani siano i buoni cani pastore che intervengono contro i lupi (i miliziani iracheni) e in difesa delle pecore (i cittadini iracheni, ma soprattutto gli americani). Data questa premessa, il film scorre di conseguenza. Chris Kyle è un eroe buono, punto. Un cecchino che uccide per dovere, quasi sempre a malincuore. Le sue crisi di coscienza al ritorno dalla guerra vengono mostrate velatamente e senza una profondità emotiva, senza approfondimenti. Così come sciatta e poca delineata è la figura della moglie Taya (Sienna Miller), banalmente rappresentata come semplice donna apprensiva.
A tradire Clint Eastwood è stata anche la scelta, probabilmente, di portare al cinema la biografia di un personaggio la cui personalità ed eroismo sono tuttora messi in discussione. Da alcuni aneddoti e dichiarazioni si può tracciare un profilo di un Chris Kyle controverso: violento, con gravi problemi di alcolismo, “invasato”, forse bugiardo (raccontò che una volta uccise due ragazzi che volevano rubargli il pick-up e di quando dopo l’uragano Katrina a New Orleans sparò agli sciacalli che si davano al saccheggio. Entrambe le voci non furono mai confermate). Tutti aspetti che meritavano di essere riportati nel film, anche solo in minima parte. Non si chiedeva a Clint di fare un docu-film, questo no, ma almeno ci saremmo aspettati qualcosa di più completo e meno superficiale. Una storia, anche se interpretata o edulcorata, va comunque raccontata. “American Sniper” invece viene presentato come la storia dell’eroico Chris, partito in guerra per salvarci tutti e (SPOILER) morto da cittadino felice, padre amorevole e marito-modello.
Alcuni ritengono che AS sia un film di pura propaganda. Non ci piace pensarlo, ma è anche difficile dare torto a queste accuse, visto che – molto, troppo curiosamente – tutti gli aspetti più oscuri dell’eroe Chris Kyle sono stati lasciati fuori dal film. Oltre ad essere stancamente ripetitivo, “Cecchino Americano” non scava nelle profondità dell’essere militare che è costretto a pagare le conseguenze psicologiche delle azioni di guerra. Di disturbo post-traumatico da stress, in pratica, solo qualche flebile accenno in qualche scena.
Non possiamo tralasciare, infine, alcuni aspetti che hanno reso ancor più facilmente attaccabile il film: il Cicciobello utilizzato come neonato, la cui palese finzione è imbarazzante; lo scambio di telefonate tra la moglie Taya e Chris, mentre questi è intento a sparare alla gente dal tetto di un edificio. Assurdità che si concederebbero a qualsiasi regista alle prime armi, ma non a un Clint Eastwood che ci ha abituati a film di tutt’altro spessore artistico ed emotivo. Una delusione.