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Dalla Amoroso a Mengoni alla Winehouse, cantanti in crisi

“Ho passato tanti anni in una gabbia d’oro/ Sì forse bellissimo, ma sempre in gabbia ero” cantava Tiziano Ferro nel 2006, e mai come in questa estate del 2011 sembra trovare la conferma di suoi illustri colleghi. Dagli esterofili esempi di Demi Lovato, stella di Disney Channel finita in clinica di recupero per disturbi alimentari e che ha poi scoperto di soffrire di bipolarità, fino a casi a noi vicini come Alessandra Amoroso, dura appare la vita per coloro che intraprendono la strada dello spettacolo.

Ha fatto scalpore la notizia di recente edita e confermata anche con un’intervista sul settimanale “Chi” della cantante salentina resa famosa dal talent show “Amici”: durante un concerto in quel di Macerata è scoppiata in lacrime dopo aver ricevuto alcuni fischi dai fan, dimostrando estrema fragilità bisogno di tranquillità e riposo. Serenità pare essere una parola sconosciuta alla Amoroso che ha dichiarato: “Io però vorrei essere capita, soprattutto da chi dice di volermi bene, non sono un robot che non prova stanchezza, sono una persona. […] E poi c’è la stanchezza fisica, da questa primavera non mi sono mai fermata.” Un profondo malessere, quello che la vincitrice dell’ottava edizione del programma di Maria de Filippi manifesta già da diverso tempo: lo scorso anno aveva già avuto problemi con i propri fan, da cui si sentiva oppressa e non del tutto capita.

Altro talent, altro personaggio, stesso disagio: Marco Mengoni a due anni di distanza dal suo esordio televisivo e musicale, alle porte dell’uscita del nuovo album di inediti “Solo 2.0” rilascia un’intervista fiume a “Vanity Fair” (in edicola in questa settimana) che a caratteri cubitali titola la propria copertina con “Marco Mengoni- Ma io non voglio finire come Amy Winehouse”. Il cantante di Ronciglione confida ai lettori di soffrire la solitudine e le pressioni che il mondo dello showbiz gli riserva, di incappare spesso in giri poco raccomandabili, come direbbero le nostre nonne, ma di non farsi assolutamente coinvolgere e di comprendere come un artista acclamato ed amato dai fan possa infine sentirsi solo (guarda un po’, il titolo del suo nuovo lavoro).

Amy Winehouse, una ragazza di appena 27 anni, talento che prende sembianze umane, emozione e voce che la Natura dona al mondo brutale e che il mondo brutale distrugge a poco a poco. Un esserino fragile nel corpo e nello spirito, una preda lanciata nella fossa dei leoni e noi tutti a godere dello spettacolo macabro della sua rovina. Viene diffusa la notizia in tutto il mondo della sua morte prematura, lacrime sparse come se piovesse da colleghi amici familiari sostenitori, eppure se siamo arrivati a questo punto c’è un motivo ben preciso. Lungi da me salire in cattedra e recitare l’omelia, ma è fin troppo palese che fino a qualche mese prima orde di fotografi erano pronti a scatti da far invidia a Usain Bolt pur di immortalare Amy Winehouse all’uscita di una clinica di recupero o sul palco con le pupille dilatate ed equilibrio precario. Allora non ci preoccupava più di tanto vederla barcollare, molti pensavano addirittura fosse una strategia di marketing finemente architettata per attirare l’attenzione su di sè… l’attenzione era ciò che ricercava e riceveva, ma non del tipo di cui aveva bisogno. La troviamo così in casa, da sola, nel tardo pomeriggio, morta. E la rimpiangiamo per essere stati sordi al suo grido, primi tra tutti i genitori.

Sono passati 20 anni da quando un altro grande della musica, con un destino altrettanto tragico come quello della Winehouse, ha cominciato a cedere agli attacchi dei suoi demoni: Kurt Cobain, leader dei Nirvana, padre del genere grunge, punto di riferimento per milioni di fan in tutto il mondo, sviene durante un servizio fotografico e si mostra in televisione visibilmente fatto. A niente sono serviti i tentativi di recupero, l’appoggio degli amici, l’amore di una figlia, nulla ha potuto nemmeno la dottrina buddhista cui era convertito: il male che lo rodeva e corrodeva da dentro ormai era radicato nel profondo, non esisteva più una cura. Ed anche lui lo ritroviamo in casa, con un fucile, da solo. Ultimo segno di vita una lettera, tra tante queste parole: “A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo.” A 16 anni dalla morte ancora si parla, si discute, si litiga su Kurt Cobain e sulla sua morte: la colpa è della moglie fedifraga, anzi delle majors che cercavano di mettere le briglie ad un cavallo selvaggio, no, era dell’infanzia tormentata dall’odio per i genitori.. Evidentemente non si impara mai dagli errori del passato…

A chiunque di noi che ogni mattina si alza all’alba per andare al lavoro, districarsi nel traffico, badare alle bollette e agli impegni può sembrare strano tutto ciò: perchè mai un cantante, specialmente giovane, che ha fama successo soldi, dovrebbe sentire la mancanza di qualcosa? Ha tutto, tutto ciò che chiunque di noi che si alza all’alba può chiedere al Cielo. E’ questa cecità, questo paraocchi invisibile che abbiamo apposto alle nostre tempie che ci impedisce di capire, che ci permette di guardare con indifferenza una ragazza di 28 anni colma di cocaina, di fischiarne un’altra perchè ha osato rifiutarsi di firmare un autografo, di privare un altro ancora della sua vita privata per dedicarsi da una mattina all’altra alla sola pubblica.

Ci lamentiamo perchè non si trattengono a fare una foto o corrono via barricati in auto dopo un concerto, perchè quello “è il loro lavoro”. Giusto. Ma sfido il primo ingegnere che passi per la strada a controllare i progetti del vicino di casa una volta uscito dal suo ufficio, il medico a tastare i seni nasali dell’amico dopo aver timbrato il cartellino in ospedale, il meccanico a pulire le candele del prete del paese alla chiusura dell’officina. Una volta lo farebbero, una seconda anche, probabilmente una terza. Ma se l’ingegnere, il dottore e il meccanico non avessero più modo di vedere la propria famiglia, di dedicarsi alle loro passioni e vivere anche la propria vita… beh, sono convinta che vorrebbero smettere di essere sempre condiscendenti ad ogni altrui richiesta, ma non potrebbero esimersi dal farlo, perchè “è il loro lavoro”. E’ lì, in quel preciso momento che comincia a sorgere la sensazione di avere un cappio che si stringe attorno al collo, la vita pur bellissima comincia a scorrere come un film e sembra non appartenerti e se non si hanno le giuste persone attorno a dare supporto…

Un mondo dorato patinato illuminato dai flash e dai riflettori, ma rigido e determinato da regole ferree che non contemplano il minimo sgarro. Non è da tutti riuscire a starci dentro e a lungo, non a caso quelli che dopo 20 anni di carriera resistono (Jovanotti piuttosto che Ligabue) sono coloro che finito di cantare si chiudono nel loro paesello natale con i propri cari a ridere un po’.
Magari la prossima volta, se un personaggio famoso per strada non sfodererà un sorriso da pubblicità alla richiesta di fare una innocua foto, beh, pensiamo che forse quei cinque minuti avrebbe prefito passarli a guardare in pace il mondo attorno a sè. Il mondo vero.

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