Noomi Rapace è diventata ormai una star internazionale, ma l’anno scorso otteneva l’attenzione del pubblico del Festival di Roma grazie a “Babycall“, opera del regista norvegese Pål Sletaune.
Ovviamente stiamo parlando di un film nordeuropeo, quindi dobbiamo aspettarci suoni, colori e umori completamente diversi da quelli più occidentali ed hollywoodiani, ai quali siamo di certo maggiormente abituati. Siamo in una cupa Oslo, resa ancora più cupa dalla vicenda che vede protagonista Anna. La donna si è lasciata alle spalle un terribile passato coniugale, che ha lasciato i segni anche sul piccolo Anders*. Mamma e figlio vivono insieme in una località tenuta segreta, ma le ansie di Anna non smettono di rigenerarsi, così decide di comprare un babycall, un apparecchio da mettere sempre vicino ad Anders per sapere cosa gli succede quando non si trovano nella stessa stanza. Sotto la pressione dei servizi sociali, le paure della donna aumenteranno sempre più, soprattutto quando le interferenze del babycall le faranno scoprire le urla di un altro bambino provenienti dallo stesso stabile.
Ci troviamo in un’ambientazione fredda e asettica, in cui Anna si muove alla disperata ricerca di una soluzione per sfuggire alle sue paure e difendere il suo bambino, al limite dell’ossessione. L’unico aspetto positivo della sua situazione, è l’incontro con un uomo dolce e apprensivo, che vuole occuparsi di lei.
Tuttavia la storia di Pål Sletaune, che si ispira a classici horror del genere di “The others” e “Il sesto senso”, non decolla in nessun modo. Per tutta la durata di “Babycall“, quindi, lo spettatore segue le paure di Anna, impersonata da una Noomi Rapace particolarmente apprezzata dalla critica che però ancora non mi convince del tutto. L’aspetto interessante, che poi è anche il tema centrale dell’opera, è il fatto di potersi muovere sul filo sottile che separa la realtà dall’immaginazione, il “niente è come sembra” e le infinite possibilità di Sletaune di giocare su un genere che consente di far accadere tutto ma che ha al contempo dei limiti impliciti; peccato, invece, che sul finale il regista sembri aver perso il senso dell’orientamento e tutto si riduca ad un’accozzaglia di trovate senza capo nè coda. Molti aspetti dell’intreccio narrativo finiscono così per decadere, privi di senso, tanto da lasciare smarrito chi fino ad allora aspettava l’effetto climax mai arrivato. “Babycall” potenzialmente sarebbe potuta essere una storia migliore, forse non completamente travolgente, ma nemmeno così deludente, con un finale distrutto che desta solo molta perplessità.
Voto:
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*Curiosità, seppure triste: “Babycall” è stato girato alla periferia di Oslo, a pochi giorni di distanza dalla strage compiuta da Anders Behring Breivik che, coincidenza, ha lo stesso nome del bambino del film.